Mali e Dejes (2016-2018)

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Negli ultimi anni abbiamo raccontato con dovizia di particolari, foto e rilievi delle importanti esplorazioni condotte sulle Alpi Albanesi, ma c’è un altro luogo, in Albania, che per un triennio ha stregato le nostre menti e rapito i nostri cuori: il Mali e Dejes!

Il Mali e Dejes

Il Mali e Dejes è un massiccio che si erge a circa 30 km a Nord-est di Burrel, città dell’Albania nord-orientale, a 3 ore buone di auto da Tirana.

Nel 2018, il Prof. Pericli Qirjazi scrive così:

La valle di Kurbnesh fa da spartiacque tra il massiccio dell’Oroshit a nord e il Dejes a sud. In entrambe le aree affiorano gli stessi calcari del Cretaceo.

Il rilievo settentrionale dell’Oroshit è modellato da altipiani a sommità pianeggiante contrassegnati da sequenze continue di doline, quello meridionale del Dejes da una monoclinale immergente a sud-ovest con evidenti forme glacio-carsiche alle quote maggiori.

Panoramica del Mali e Dejes
Panoramica del Mali e Dejes

Il Mali e Dejes è un luogo che ha esercitato profondamente il suo fascino su di noi, sia per fattori sociali, sia per la natura selvaggia e variegata che lo contraddistinguono. Epicentro dei nostri spostamenti in quell’area fu Maçukull, villaggio che ci ha ospitato per tre anni consecutivi e del quale conserviamo gradevoli ricordi. È una sorta di ultimo avamposto prima del nulla sconfinato, dove per nulla intendiamo lande sterminate che si scontrano dopo chilometri contro una catena montuosa, che ha come vetta più alta il Maja e Dejes, con i suoi 2244 m.

Mali e Dejes (Foto O. Lacarbonara - 2016)
Mali e Dejes (Foto O. Lacarbonara – 2016)

Qui la sua gente vive in maniera semplice, come si vede solo nei documentari, qui si possono osservare persone che si spostano a cavallo e che arano la terra con i muli.

Qui al mattino si possono ammirare bambini che vanno a scuola percorrendo chilometri di sentieri rocciosi, oppure intercettare ragazzi che si recano a fare la spesa per la propria famiglia, dopo essersi sorbiti 4 ore di cammino per arrivare allo spaccio alimentare e che ne dovranno fare altrettante per tornare.

Il Bazar di Maçukull
Il Bazar di Maçukull (Foto M. Pastore – 2017)

Qui i cimiteri non esistono, come li conosciamo noi, ma lungo le strade vi sono cappelle di intere famiglie a cielo aperto, lapidi con effigi, custodite da fiori freschi. Qui le strade non conoscono l’asfalto, ma solo massi spacca auto e polvere di breccia, l’acqua che sgorga dalle pareti rocciose quasi mai viene incanalata ed è libera di solcare quelle carreggiate che si dovrebbero percorrere. Qui non vi è un servizio di raccolta rifiuti, tutto si riutilizza o lo si restituisce alla terra, ciò che invece non può essere recuperato lo si brucia, nel migliore dei casi nelle pertinenze delle proprie abitazioni.

Un abitante di Macukull
Un’abitante di Macukull (Foto M. Pastore – 2018)

Qui è uno di quei luoghi che si è studiato sui libri di scuola, ovunque vi sono segni tangibili e cicatrici del regime che fu. Qui è quel luogo dove ti raccontano storie di migrazione moderna verso le città o di rientri dall’estero per svariati motivi, che possono andare dalla nostalgia di casa, a casi da codice penale.

Qui è dove avverti quel profumo di un tempo sospeso.

Scene di vita a Maçukull
Scene di vita a Maçukull (Foto M. Pastore – 2017)

Qui è dove siamo arrivati noi, ormai 4 anni orsono e questa è una storia di passione che non narra di profondità (nell’accezione speleologica del termine) o di chilometri di gallerie, ma semplicemente del fascino dei luoghi, di meravigliosi rapporti umani e di simpatiche avventure in un luogo remoto; tanto remoto da sembrare un viaggio nel tempo. Essa comincia grazie alla curiosità, o se preferite all’ostinazione, di Pino Palmisano, il quale da anni attenzionava quelle montagne, dapprima sulle carte geologiche, poi su Google Earth. Era stato colpito dalle forme di quei calcari e dalle morfologie esasperate di quelle vette che, da satellite, lasciavano intravedere (o sognare) pozzi profondi.

Pino, nel 2015, si era preso la briga di contattare telefonicamente il Professor Skender Sala, docente di Geografia dell’università di Tirana, per confrontarsi circa quell’area, quest’ultimo gli aveva segnalato un profondo inghiottitoio, balzato alle cronache locali per via di un suicidio, perpetrato da una donna.

Forte di questa segnalazione, il buon Pino, si era convinto a parlarne al Gruppo, che proprio in quegli anni aveva ripreso a calcare il suolo albanese sulle Alpi, dove era in corso l’esplorazione, con i faentini (G.S.F.A), della Shpella Markt e che bene aveva imparato a muoversi nel Paese delle Aquile.

Prima spedizione primaverile sul Dejes (2016)

Correva l’anno 2016, per la precisione il mese di aprile, quando la prima la squadra di speleologi martinesi decise di fare una ricognizione su quelle montagne.

Spedizione Mali e Dejes 2016
Da sinistra verso destra: Cosimo Caldaralo, Francesco Lo Mastro, Hardy Malaj, Pino Palmisano, Pericli Qirjazi, Michele Marraffa, Claudio Pastore, Orlando Lacarbonara. In basso: Skender Sala, Pasquale Calella

Partecipanti: Pino Palmisano, Michele Marraffa, Pasquale Calella, Francesco Lo Mastro, Donatella Leserri, Claudio Pastore, Orlando Lacarbonara, Cosimo Caldaralo

Periodo: dal 25 aprile al 1 maggio 2016

Poco prima di giungere in Albania, fummo avvisati dal Professor S. Sala che degli speleo italiani avevano “fatto” una grotta proprio sul “Dejes”. Poco male, si pensò che ci fosse altro da esplorare e che quella notizia, non faceva altro che farci immaginare la classica punta di un iceberg.

Giunta in Albania, l’allegra carovana fu messa in contatto da Pericli Qirjazi, altro docente universitario, con Hardj Malaj, un suo ex studente, il quale si era cimentato nel trovarci un alloggio ai piedi del Dejes e una guida per le scarpinate future.

La destinazione finale fu Maçukull, un villaggio che sorge 1000 m di altitudine (da censimento del 2011 conta poco più di 1000 abitanti, ma di fatto, complice lo spopolamento che attanaglia le zone montuose e rurali dell’Albania, in favore dei grossi centri, porta a poche centinaia di anime gli effettivi residenti), dove fummo sorpresi da un’accoglienza calorosa da parte del padrone di casa, un uomo di mezza età che rispondeva al nome di Hisny Bucaci, che di mestiere fa l’autotrasportatore, inteso come autista di bus, che fa da spola tra Burrel e Maçukull e che per arrotondare ha messo su, presso la propria abitazione, anche uno spaccio alimentare.

La casa di Hysni
La casa di Hisny (Foto M. Pastore – 2017)

Hisny, con la sua famiglia al completo, ci invitò in qualità di ospiti, a quanto pare non proprio inusuali, a sederci sul prato antistante l’abitazione, per sorseggiare caffè turco e rakjia, per darci il benvenuto.

Le prime parole pronunciate dal simpatico ospitante furono: «Andrea, speleologo italiano, stato qui!». Al quanto perplessa, la nostra comitiva se ne andò a dormire con l’interrogativo su chi fosse quell’Andrea, speleologo, che avesse dimorato, prima di noi, in quell’ abitazione apparentemente sperduta.

L’indomani il gruppo si mosse presto, dietro la guida assegnataci, tale Holly Bucaçi, nonché cugino di Hisny, il quale fornì un altro indizio sull’Andrea nominato la sera precedente, «Andrea Toscana, Italia!» Pino iniziò a spremere le meningi.

L’agognato inghiottitoio, una volta raggiunto, si rivelava davanti a noi: un maestoso pozzo d’ingresso che seguitava un corso d’acqua. Con la famosa tecnica del lancio del sasso, riuscì difficile rilevarne la profondità, seguirono altri lanci di massi più sostanziosi, che decretarono la misura in oltre 100 metri. In seguito si scoprì che quell’inghiottitoio misurava ben 180m di salto verticale.

L'ingresso di Ne Shen (Foto O. Lacarbonara - 2016)
L’ingresso di Ne Shen (Foto O. Lacarbonara – 2016)

Non ci mettemmo molto a capire che quella cavità, che prendeva il nome di Ne Shen, era stata già discesa. Così ci dedicammo alla ricerca di altri ingressi e proprio in quell’occasione sul nostro cammino incontrammo Durim Murrani. Una persona dall’aspetto severo e serio che diventò negli anni a venire guida di fiducia e grande amico di tutti noi.

Durim, che per comodità divenne sin da subito Duri, è un ex militare che era impiegato nell’immensa base bellica, ora dismessa, di Maçukull.

Ex deposito delle munizioni di Maçukull
Ex deposito delle munizioni di Maçukull (Foto M. Pastore – 2017)

Duri è un profondo conoscitore dell’area, in estate, con sua moglie Arianna è dedito alla raccolta di erbe officinali, quindi frequentatore abituale delle vette che sovrastano il villaggio, nonché di diversi imbocchi, che non lesinò ad indicare a noi altri, sin da subito. Fu così che, grazie alla nuova guida, ci ritrovammo ad indagare un paio di grotte, poi denominate Lek 1 e Lek 2, nelle immediate vicinanze della sua abitazione, nella zona di Valgin.

Durrim Murrani (Foto P. Palmisano - 2016)
Durrim Murrani (Foto P. Palmisano – 2016)

Quella pre-spedizione proseguì tra una bevuta a casa di Duri e un’altra, con la visita di altre grotte, tra cui a quelle dell’area di Bruç, un villaggio a quota 180 metri, posto in una valle poco distante, dove vi sono delle belle sorgenti.

Lì vi sono tre grotte orizzontali, di cui una visibilmente indagata archeologicamente, mediante scavi, che prende il nome di Shpella e Blazit, che si apre nel braccio fossile della valle del torrente Shutrejes (ne parleremo più avanti).

Discendemmo infine due altre cavità dallo sviluppo modesto, nuovamente nei pressi di Valgin, Shpella e Sòrave e Shpella Ne Sharra, di cui ne eseguimmo i rilievi.

Shpella e Sorave - Rilievo (2016)
Shpella e Sorave – Rilievo (2016)

Così si chiuse il 2016 sul Dejes, ben consci che l’area meritava un’ulteriore indagine speleologica.

Shpella Ne Sharra - Rilievo (2016)
Shpella Ne Sharra – Rilievo (2016)

Mali e Dejes – estate e autunno 2016

Pino, che con la mente non riesce a stare fermo, mettendo insieme i vari indizi e leggendo un articolo apparso su un numero del 2014 di “Grotte”, rivista del G.S.P. (Gruppo Speleologico Piemontese), si convinse che lo speleologo italiano, residente in Toscana, che rispondeva al nome di Andrea, non poteva che essere il suo vecchio amico Gobetti. Così, rientrato in Italia gli scrisse e da lì partì, tra i due, un fitto scambio di informazioni e punti GPS.

Fu così che venimmo a conoscenza che Andrea Gobetti e altri amici, tra cui Andrea Benassi, esplorarono Ne Shen, un inghiottitoio di circa 2 km di estensione, che al momento risulta ancora l’unica grotta degna di nota di quell’area.

Inghiottitoio Ne Shen (Rilievo di A. Benassi)
Inghiottitoio Ne Shen (o Ne Shehe) – Rilievo di A. Valsuani e T. Pasquini (Gruppo Speleologico Piemontese)

Nell’estate del 2016, mentre noi altri si era sulle Alpi e scoprivamo in quei giorni Shpella Shtares, Pino partì in solitaria per il Mali e Dejes, per fare sopralluoghi, per erudire Duri sulla ricerca speleologica e per stringere ulteriori rapporti in quell’area. Nel suo viaggio in luglio, inoltre, incontrò un altro italiano, Alberto “Grampied”, esperto alpinista e appassionato di escursionismo, col quale condivise i sentieri che conducevano alle grotte, che all’epoca affioravano un po’ ovunque, tanto da avere la sensazione, che erano gli speleologi a mancare.

Nell’ottobre del 2016 Pino decise nuovamente di ripartire, accompagnato questa volta dalla figura di Francesco Del Vecchio, uno speleo esperto di Altamura, ex C.A.R.S. (Centro Altamurano Ricerche Speleologiche). Ai due fecero compagnia per alcuni giorni i professori Pericli e Skender. Così l’allegra banda, guidata dal magistrale Duri fece i primi giri alti sulle montagne, osservando sul campo con accurata dovizia il territorio. Ma non si limitarono a questo, nei pressi delle già note Leke 1 e Leke 2, a bassa quota, trovarono la Leke 3, un inghiottitoio fossile che Francesco discese per circa 60 metri, in solitaria.

Seconda spedizione sul Mali e Dejes (aprile 2017)

La sempre più fervida convinzione di Pino, che quella porzione di Albania fosse un nuovo Eldorado speleologico, avvalorata peraltro dall’opinione di Gobetti, ci riportò a calcare nuovamente quelle terre nell’aprile del 2017.

Spedizione primaverile dejes 2017
Seconda spedizione primaverile Mali e Dejes (Foto M. Pastore – 2017)

Partecipanti: Pino Palmisano, Michele Marraffa, Pasquale Calella, Michele Pastore, Angelo Verboschi, Gianpiero Lacarbonara, Giuseppe Caliandro.

Periodo: 26 aprile – 1 maggio 2017

Sapevamo che a sto giro avremmo condiviso lo stesso tetto con Gobetti e i suoi; per il racconto di quell’incontro ci affidiamo al diario del Gruppo di quei giorni:

Belli doloranti e coi muscoli induriti, ci trasciniamo sotto la veranda. Mentre sorseggiamo un caffè, arriva a farci compagnia un simpatico ragazzo sulla trentina, con accento toscano. Si chiama Alessandro. Ci racconta che fa parte del team che accompagna lo speleo mito e che non hanno bene in mente cosa fare, poiché sono solo 3 persone. Poco dopo, spunta dalla soglia della porta, un’altra persona, un altro Alessandro, che ci racconta essere di Asti e che di mestiere fa il libraio.

Passato qualche minuto, sentiamo il rantolio di un orso provenire dall’interno dell’abitazione. Sulla soglia si affaccia una figura, con un corpo allungato e sottile, che tira un altro sbadiglione e dice a tutti «buongiorno!»

È lui, è Andrea Gobetti, il guru della speleologia italiana. È vestito con una camicia a quadri di flanella, pantaloni verdoni in velluto e cappello abbinato ai pantaloni. L’ossuto e baffuto uomo corre a salutare il nostro Pino Palmisano; con un forte accento piemontese dicendogli «Oh caro Pino, quanti anni sono che non ci si vede?»

Terminati i convenevoli tra i due, il nuovo compagno di avventura si gira verso noi altri e si presenta così «scusate, devo pisciare malamente! Torno subito!»

Onorati della presenza di quegli ospiti, si decise di fare visita tutti insieme alle sorgenti di Bruç, per osservare meglio la Shpella e Blazit vista un anno prima (quella indagata archeologicamente, per intenderci).

Ingresso Shpella e Blazit
Ingresso Shpella e Blazit (Foto P. Palmisano – 2017)

Entrammo in grotta e superata una volta bassa, ci imbattemmo in una lunga galleria e nella parte mediana di essa Andrea notò immediatamente qualcosa: «Guarda qua, guarda qua!» disse, indicando dei graffi minuscoli sulla parete destra. Portando tutti quanti le nostre lampade al massimo dei lumen, scorgemmo una miriade di segni che costellavano l’intera facciata. Essi partivano da pochi centimetri dal suolo, sino a raggiungere i cinque, sei metri d’altezza. «Ariu, ariu!» (orso, orso) si affrettò a dire l’anziana e improvvisata guida che ci scortava.
Per tutta risposta Andrea rincarò la dose «Ma mica l’ariu fa ste robe qua!», additando altri segni che presentavano dei graffi orizzontali che intersecavano quelli verticali. Non curante del nostro sbigottimento, andò oltre per godersi il resto della grotta, mentre Pino documentava con fotografie quei “graffi”.

Graffi rinvenuti nella Shpella e Blazit
Graffi rinvenuti nella Shpella e Blazit (Foto P. Palmisano – 2017)

Sempre in prossimità di Bruç discendemmo un altro paio di grotte, di cui conoscevamo gli imbocchi già dall’anno prima, ma anche queste si rivelarono poco profonde. Chiudemmo, inoltre l’esplorazione iniziata da Francesco del Vecchio, della Lek 3, la quale raggiungeva i -80 metri.

Lek 03 (Foto di N. Damiano - 2018)
Lek 03 (Foto N. Damiano – 2017)

Il resto del tempo, quell’anno lo impiegammo in lunghissime e infruttuose camminate in quelle zone brulle, trovando qua e là nuovi ingressi, ma che tutti conducevano a pochi metri di profondità. La consolazione ogni sera era il lauto pasto che ci preparava Pino e le amabili chiacchierate talvolta in dialetto (epica la serata in cui Pasquale descrisse allo sfortunato interlocutore il metodo di autocostruzione di scalette), con Andrea.

P. Calella, A. Gobetti e G. Caliandro (2017)
P. Calella, A. Gobetti e G. Caliandro (Foto M. Pastore – 2017)

Per approfondire: Diario di una spedizione – Parte II

Già sul traghetto di ritorno, Pino non perse tempo a reperire informazioni sull’indagine archeologica perpetrata alla Blazit, che fu condotta congiuntamente dalle università di Colonia e Tirana. Pino in Italia studiò la documentazione dei reperti e non tardò a scrivere in Germania, per capire se gli archeologi avessero indagato quei “graffi”, come risposta gli fu confermato che venivano attribuiti all’orso.

Tuttavia, alcuni dubbi rimasero, tanto da far buttar giù a Pino e Andrea degli appunti circa gli interrogativi che quei segni presentavano.

Spedizione estiva sul Mali e Dejes (2017)

Così giunse l’estate del 2017, quella che ci regalò i primi chilometri di Shtares.

La spedizione sulle Alpi sarebbe poi proseguita proprio sul Mali e Dejes, con l’intento di trovare finalmente delle grotte degne di questo nome. Duri, oramai ben conscio di cosa dovesse cercare, era in costante contatto con Pino e in effetti aveva più di qualcosa per le mani, che secondo lui meritava la nostra attenzione e conseguente indagine.

Così la carovana da Vrana e Madhe, con le ginocchia ancora affaticate dalla prima parte della spedizione, si trasferì nuovamente a Maçukull.

Il gruppo della spedizione estiva sul Dejes
Il gruppo della spedizione estiva sul Dejes (Foto N. Damiano – 2017)

Partecipanti: Pino Palmisano, Michele Marraffa, Donatella Leserri, Pasquale Calella, Alessio Lacirignola, Angelo Verboschi, Michele Pastore, Claudio Pastore, Antonella Devito, Nico Masciulli, Giuseppe Caliandro, Norma Damiano, Federico Di Vita, Tommaso Santagata.

Periodo: dal 27 agosto al 3 settembre 2017

Con umore quasi da vacanzieri ci stabilimmo nuovamente presso la casa di Hisny, pesavano sulle gambe le fatiche del famigerato ghiaione che avevamo percorso innumerevoli volte nei giorni precedenti.
Era difficile far comprendere a Duri, il motivo per il quale ogni mattina si facesse sempre più tardi, tanto da costringerlo ad assegnarci come guida il suo secondogenito Igli.

Con caparbietà alcuni dei nostri si avventurarono per 2 giorni di seguito a pochi metri dalle vetta dell’Arneshta, precisamente in un’area denominata Bruzhllave, per verificare le segnalazioni raccolte da Duri. Il primo giorno trovammo in quota quello che pareva essere un inghiottitoio promettente, ma che purtroppo risultava essere ostruito a pochi metri dall’ingresso, da alcuni massi.

Inghiottitoio Brushllave
Inghiottitoio Brushllave (Foto M. Pastore – 2017)

Il secondo giorno, sempre in quota e sempre nei pressi dell’Arneshta, ma più spostati verso il Melan i Vogel, indagammo una bella frattura/crepaccio che scendeva per 90 metri, ma che tanto per cambiare chiudeva sul fondo.

La sera, per nulla scoraggiati dagli scarsi risultati esplorativi fin qui ottenuti, si ragionava, tra un raki e l’altro, sul tipo di carsismo presente in quell’area. Claudio, ad esempio, propendeva per l’idea che si trattasse di un carsismo ad infiltrazione diffusa, vale a dire che, essendo il tasso di fratturazione molto alto, probabilmente non si sono sviluppate vie preferenziali di infiltrazione dell’acqua, e quindi ne consegue che vi siano poche (ma non nulle) probabilità di trovare inghiottitoi significativi. Ipotesi avvalorata dall’unico inghiottitoio noto (Ne Shen) posto molto più a valle rispetto alle montagne.

La consapevolezza dell’immane fatica che costava quella ricerca, per percorrere chilometri di altopiano prima e dislivelli positivi dopo, quando si era fortunati con un cavallo che trasportava l’attrezzatura, iniziava a far serpeggiare in noi l’idea di abbandonare il Dejes.

Terza spedizione primaverile sul Mali e Dejes (2018)

Ma a quel luogo così affascinante gli si volle dare un’altra chance, sempre per merito di Pino, che era in costante contatto con Duri (il quale continuava a raccogliere svariate segnalazioni in loco), così si decise di ripartire per quel massiccio, nella primavera del 2018.

I partecipanti alla spedizione primaverile sul Mali e Dejes (2018)
I partecipanti alla spedizione primaverile sul Mali e Dejes (Foto M. Pastore – 2018)

Partecipanti: Pino Palmisano, Pasquale Calella, Michele Marraffa, Michele Pastore, Angelo Verboschi, Angelo Ciniero, Roberto Romano, Cosimo Caldaralo.

Periodo: dal 21 al 25 aprile 2018

L’oramai consolidata amicizia che ci legava a Duri, quell’anno ci portò a dimorare presso la sua abitazione. L’intraprendente ex militare aveva ristrutturato e arredato di tutto punto quella che era una stalla pertinente alla sua casa, offrendoci di fatto un caldo e confortevole tetto.

Nonostante la rassicurante presenza di Duri, l’arrivo il 21 di aprile in quelle lande fu per la prima volta al quanto ambiguo. Ci affidiamo nuovamente al diario del GSM di quei giorni, che meglio di qualsiasi narrazione a posteriori descrive quelle vicissitudini:

La strada diventa sempre più disagevole: si discende un brutto versante che porta a valicare il torrente Flimit su un improbabile ponte di legno marcio e travi e ferro arrugginite. Una volta arrivati su un piccolo altopiano attendiamo l’arrivo di Flamur, la nostra guida e referente locale, con la sua morra di pecore, che ha segnalato una grande shpella a Pino, lo scorso anno. Aspettiamo oltre tre ore, ma di Flamur non c’è traccia, fino a quando la nostra guida ci comunica che il pastore non è più disposto ad accompagnarci.
“Dice che c’è l’oro al suo interno”.

Cazzate! Qui quando c’è “dell’oro”, o c’è della marjuana, o una tomba di qualche morto ammazzato. Qui vale la regola che se la grotta sta nella mia proprietà allora la grotta è mia, punto e basta.

Lo speleo è abituato a questa storia dell’oro, ne siamo vittime consapevoli, leggende che si tramandano di padre in figlio per generazioni e così sia. Qui di oro non ce ne sta nemmeno a portarcelo. Sconsolati più per l’attesa che per non aver potuto esplorare sta fantomatica grotta di Ali Babà, cambiamo programma e ci dirigiamo a casa di Durim per la notte.

Nonostante l’increscioso episodio e un rammaricato Duri, non demordemmo.

Nei giorni seguenti andammo a discendere altri 4 pozzi e rilevammo un’altra cavità orizzontale, che si apriva sul fondo di una dolina a ridosso di Maçukull, il cui ingresso era stato trasformato in un ovile. Poche centinaia di metri e anch’essa chiudeva su una strettoia tappata da fango e detriti.

Così si giunse all’ultimo giorno di ricerche sul Mali e Dejes, un pastore di nome Selim ci aveva fornito una segnalazione, in quota, di un pozzo profondo, a suo dire, di decine e decine di metri.

Torniamo al diario per rivivere quei momenti:

si è deciso di svegliarci presto, molto presto. L’obiettivo è una grotta individuata da Selim sulla spalla meridionale dell’Arneshta, intorno a quota 1600m. Partiamo presto perché qui il sole picchia duro e siamo già tutti ustionati.

Si cammina parecchio in salita e con poche soste. La meta sembra allontanarsi sempre di più. Finalmente tra le alte incontriamo Selim con fucile in spalla. Sembra uno di quei guerriglieri del Poum della guerra civile spagnola: camicia di flanella pantaloni di velluto e scarpe sformate da terreni impraticabili. Selim va su come un treno. È instancabile.

Il pastore Selim
Il pastore Selim (Foto M. Pastore – 2018)

Quella di fronte a noi è una montagna infame, qui non si cammina, ci si arrampica, su queste creste che sembrano lame, il fiato manca, il cuore accelera e il sole mena.

Sentiamo tutti il bisogno di fermarci spesso, bere e mangiare frutta secca.

Occorre rimanere concentrati su questa montagna che sale verticale dritta verso il cielo con uno strapiombo che lambisce sempre i passi falsi. Siamo ancora ben sotto la cima, c’è neve e la grotta sembra scomparsa. Nemmeno Selim riesce a trovarla.

Cerchiamo un’ombra, ma questa montagna offre pochi ripari e i pochi alberi sono bruciati da quelli che sembrano fulmini caduti in un temporale estivo.

Né Zeus, né Dio, né Allah sembrano aver avuto pietà di questo posto.

Uno scorcio dell'Arneshta
Uno scorcio dell’Arneshta (Foto M. Pastore – 2018)

Dopo una lunga pausa ricominciamo a cercare quella che sembra più un miraggio che realtà. Finalmente Duri riesce a individuare la grotta, molto più in basso della nostra posizione. Ad affacciarsi è solo Michele M. che in libera racconta che la sphella dopo un paio di salti si tappa, come tutte le altre. Anche la fantomatica descrizione di una grotta senza fondo si è rivelata un amaro scherzo della fantasia. 

Ripartiamo in discesa finalmente, ho gambe molli, ma allo stesso tempo indurite, ogni passo chiede caviglie buone e io in questo pecco dalla nascita. Lungo il lungo cammino che ci separa da casa base individuiamo altre grotte tutte uguali: un salto di 10- 20 metri e poi tappano sul fondo.
Siamo stanchi e quello che vogliamo è una birra ghiacciata, fumare un paio di sigarette e riposare.

Beviamo per allontanare la stanchezza e l’ennesimo insuccesso, ai grottaroli della domenica – come chiamava i fondatori del Gruppo, Pietro Parenzan – serve la profondità per portare a casa qualcosa, ma qui la profondità è solo negli occhi di questi guerrieri che abitano il Dejes e nella grotta trovata da Andrea Gobetti qualche anno fa a fondo valle

Per approfondire: Senza mai raggiungere la profondità. Un racconto tra le montagne albanesi

E così volsero al termine, per ora, le nostre scorribande su quelle montagne.

Fuori dal Mali e Dejes

Ben consci di aver lasciato un pezzo di cuore (e di polmoni) su quelle alture, negli anni seguenti si decise di accantonare la ricerca speleologica in quel luogo, per visitarne degli altri.

Nonostante ciò, Pino ci è tornato ancora una volta, nel maggio 2019 per visitare nuove aree, in compagnia del fidato Durim.

Pino Palmisano (2018)
Pino Palmisano (Foto M. Pastore – 2018)

Anche Andrea Gobetti in compagnia di Alessandro Valsuani vi è tornato qualche altra volta, ma da ciò che sappiamo non trovando grandissime grotte. 

A proposito di Andrea, abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo nuovamente nel novembre scorso, in occasione di un incontro organizzato dal G.A.S.P. (Gruppo Archeologico Speleologico Gioia del Colle) a Gioia del Colle. E’ stato un momento di confronto intenso e allegro, come sempre. Abbiamo anche fatto un giro in grotta assieme, alla Grave Rotolo, a Monopoli.

Duri invece, in costante contatto telefonico con Pino, ha apprezzato molto il Capocollo di Martina Franca inviatogli a maggio e ora si è trasferito con la sua famiglia a Tirana, per cercar fortuna e per star più vicino ai suoi due figli.

Ad oggi non sappiamo dire se questa è avventura conclusa o meno, ma di sicuro sappiamo che abbiamo voluto buttar giù queste poche righe, per render omaggio a quelle persone e a quelle terre che ci hanno accolto benevolmente in questi anni. A ulteriore dimostrazione del fatto che la speleologia non è solo profondità o risultati a tutti i costi, ma soprattutto uno stare insieme anche con chi non condivide in prima persona le “oscurità” di questa “follia”.

Ci scusiamo, se involontariamente, nel nostro racconto abbiamo dimenticato di citare qualcuno, soprattutto con i due Alessandro che scortano Gobetti, ma al prossimo raduno (dove con loro abitualmente condividiamo bicchieri di vino) annoteremo sul taccuino i loro cognomi. E’ una promessa.