Tutte le storie che parlano di grotte raccontano di ombre che fanno le montagne e ogni grotta parla di un pezzo di memoria che un massiccio, per esempio gli Alburni, cerca di nascondere agli esseri umani e, forse, a sé stesso. Noi, naturalmente, testardi come muli, cerchiamo di carpirne i segreti, cerchiamo di sfidarla, di armarla per partire e raggiungere chissà quale fondo o chissà quale verità. L’unica verità è che noi capiamo poco e a conquistarci è sempre lei.
Gli speleo ubbidiscono a un’unica legge quella della memoria che altro non è che quella della natura perché tutte le cose che noi, fragili esseri, possiamo ricordare sono state create da questa.
“Non, nisi parendo, vincitur”, la natura non la si vince se non ubbidendole diceva Francesco Bacone, quanto aveva ragione.
Questa storia comincia con un grave incidente nella Grava dei Gentili nella primavera del 1982. Siamo sui Monti Alburni, in provincia di Salerno, una squadra del Gruppo Speleologico Monopolitano, entrata col bel tempo di un pomeriggio qualsiasi, uno di quelli che prometteva bene, fu colta nella notte da un potente acquazzone. Il grande torrente d’acqua che raccoglieva tutta quella della valle della Caulata si riversò nella voragine e ben presto tutti i pozzi e gli armi si trovarono annegati dalla piena.
I due che erano in punta non raggiunsero in tempo l’ampia caverna del pozzo iniziale, furono bloccati nella stretta condotta a circa -100. Restarono fradici, lì, immobili, in attesa, fino al pomeriggio del giorno dopo, quando giunsero diverse squadre del Soccorso Speleologico per portarli fuori.
Claudio Falzetti, un giovanissimo delle ultime leve monopolitane, non sopravvisse al freddo, all’acqua e forse alla paura, e si spense piano piano in quell’abbraccio di buio e di solitudine che sono le grotte.
Diversi anni dopo, nel 1989, su Serra dell’Abete, il nostro presidente, Michele Marraffa e Pasquale Calella dedicarono al giovane speleologo, che nessuno di noi in realtà ha mai conosciuto, una nuova voragine: l’Abisso Claudio Falzetti. Un abisso che al momento scende a circa -250 m come racconta il rilievo eseguito dal GS CAI Napoli e dal GSAVD.
Noi ci siamo tornati qualche mese fa in compagnia di Vittorio Morrone perché come ci ha insegnato Pino gli Alburni sono per il GSM come un orologio fermo che basta ricaricare, cosicché i suoi meccanismi possano ripartire, almeno, a settimane alterne.
Questo è quello che alcuni di noi hanno avuto la fortuna di vedere. La fama precede questa grotta, perché è tra le più belle, se non la più bella, del massiccio.
Claudio ci confida che il rilievo è da qualche parte, finito chissà dove, di non cercarlo nel “libro nero degli Alburni” perché troppo tardi fu consegnato al catasto, ma noi come al solito ci affidiamo non alla sorte ma alle capacità mnemoniche di Michele lui che quella grotta l’ha annusata in superfice anni fa. Se la fortuna aiuta gli audaci, noi ci consegniamo al magnifico duo Michele e Pasquale, insieme trovano, esplorano, cartografano e archiviano. A memoria. È come se avessero uno speleo hard disk cerebrale.
Così torniamo su quella grotta pronti a riarmare. È il 2 gennaio e fa freddo. Dentro e fuori quell’abisso. Abbiamo diverse certezze una di queste è che bisogna, necessariamente, superare cautamente la delicata frana che sosta sull’imbocco dell’ultimo pozzo da un centinaio di metri, vale a dire, tornare, finalmente, dopo una ventina d’anni, a dare uno sguardo al fondo, alla frontiera.
La grotta è stata visitata l’ultima volta, una decina di anni fa, dai Napoletani, pertanto, non abbiamo coscienza di come siano messi gli armi (ma decidiamo comunque di entrare senza trapano complice, forse, l’ottimismo per l’anno nascente). Già alla partenza facciamo fatica a trovare la via d’accesso “comoda” non trovando il primo fix, decidiamo di entrare dalla dolina rischiando di fare cadere materiale nel pozzo d’ingresso di una settantina di metri. La partenza è sulla parete sinistra (guardando l’imbocco) poi una volta entrati nel pozzo l’armo si mantiene sulla parete destra e la campata è spezzata da ben 7 frazionamenti. Ci accorgiamo che l’armo del pozzo è comunque tutto da sistemare. Dalla sua base proseguiamo lungo il meandro alla base, fino a che non incrocia una frattura spaccata sul fondo. Andiamo avanti seguendola per 7-8 metri, armando un traverso, per poi scendere lungo la verticale di una ventina di metri, sempre su corda. Una volta scesi, la grotta riprende la sua morfologia meandriforme. L’acqua qui, sul fondo del meandro, scorre abbondante e fa rumore. Un rumore che anestetizza il vuoto. Proseguiamo e raggiungiamo l’imbocco del pozzo da 40. Alcuni di noi l’avevano visto solo in fotografia.
L’Eldorado dei pozzi. La sua bellezza mozza il fiato, bisogna fermarsi a guardare. Respirare e riempirsi occhi e polmoni. Perché se altrove l’Acqua e l’Aria si sono lasciati andare qualche volta la mano a creare in fretta e furia qui hanno lavorato di fino, c’hanno messo troppo amore nei particolari e sarebbe quasi inutile cercare di comprendere ogni cosa al primo sguardo.
Purtroppo però la cascata non ci permette di poter discendere per intero P40, l’armo è proprio sotto la via dell’acqua. Dobbiamo fermarci, toccherà aspettare le mani esperte di Donatella per andare oltre perché alla fine di quel meraviglioso pozzo ci aspetta la frana e il P100.
Così dopo l’ennesima uscita, Donatella riesce a spostare l’armo e, aspettando i giorni della merla, Orlando arma il P100 per aggirare la frana. Operazione che porta via molto tempo, dall’imbocco del pozzo decide, infatti, di far partire un traverso che elude i crolli e si trasforma, dopo qualche metro, in verticale. Si ferma a metà, spesso spazio e tempo non sono la soluzione a tutti i problemi.
Decidiamo di tornarci ancora una volta, è metà febbraio e a sto giro ci tocca aggirare il maltempo all’esterno, entrare in grotta e continuare l’armo lasciato a metà per evitare la frana sul pozzo da 100. C’è tanta acqua, ma proseguiamo scansando cascate e vasche piene d’acqua nel meandro e raggiungiamo il pozzo da 40. La cascata, che ha aumentato la sua portata, bagna la corda malgrado l’armo sia stato allontanato la volta precedente da Donatella.
Tocca però piazzare un deviatore che migliora solo di poco la progressione nonostante l’impegno profuso per realizzarlo. Michele, il presidente, e Luisana arrivano alla base del pozzo, il primo incolume, come mamma l’ha fatto, la seconda, fradicia.
La grotta tocca meditarla sempre, noi speleo non siamo contemplativi, la nostra attitudine è meditativa, significa che mastichiamo il vuoto finché esso non rilascia tutto il suo sapore e non ci entra nella carne, nelle ossa. Solo allora ci diamo il permesso per andare avanti.
Così i due si affacciano, per un attimo, sul maestoso pozzo da 100, oltre la frana, ma il tempo è sempre tiranno, perché è l’unica cosa del mondo che non aspetta. O non ci spetta.
Ci saranno giorni migliori, forse braccia e occhi nuovi che proseguiranno, ma non oggi.
Quel che resta, per ora, è un pezzettino di kevlar giallo e nero. Uno di quelli talmente piccoli che non sai che fartene. Uno di quelli trovato sul fondo del pozzo da 70, lasciato da chissà chi. Allora lo raccogli e decidi che diventerà un ricordo. Memoria. Perché trovare in grotta qualcosa del genere è come prendere i voti per un diacono. Perché ci sono storie che per raccontarle e ricordarle per sempre bisogna viverle.