Senza mai raggiungere la profondità. Un racconto tra le montagne albanesi

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È una di quelle sere baresi, primaverili, una sera come tante.

Soffia un vento leggero, quasi impercettibile. La nave Francesca ora diventa un’opzione reale, l’unica praticabile. I viaggiatori balcanici sanno che questo traghetto, al di la dell’Adriatico li condurrà in Albania, meglio Shqiptar, l’antica terra che faceva paura anche ai romani.

Sul traghetto una volta imbarcati l’attesa è davvero estenuante, forse il contrappasso per noi comuni mortali che solchiamo il mare solo come passeggeri.

Alle nostre spalle San Nicola sembra quasi indicarci la strada, sembra dirci: “Andate sempre dritti, seguite la rotta, non voltatevi indietro, è tempo di partire”.

3 lampi, una pausa lunga, «ogni faro ha il suo linguaggio – mi racconta Pasquale- a noi tocca solo imparare a interpretarlo». Intanto sul ponte si radunano i passeggeri, qualcuno fuma, altri con un telefono in mano cercano di fotografare un orizzonte senza orizzonte. Qui il buio del mare si mangia tutto, morti e vivi.

Rotta Bari – Durres, sempre dritti, direzione est.

Alle 22:45 finalmente la navetta pilota si stacca dalla “Francesca”, finalmente lasciamo il porto di Bari, il mare aperto la nostra speranza, l’antica Epidammo la meta.

Il mal di mare qui sull’Adriatico è un ballo liscio tra le stelle e le piccole onde. Qui il cielo è limpido, il mare è scuro. Intorno a noi solo buio e mare aperto e una leggera schiuma bianca lasciata dalle eliche del motore. C’è qualcosa che questo mare non riesce a comunicare agli esseri umani, è come se volesse trattenere tutto dentro di se. Solo il rumore dei motori spezza questo silenzio che altrimenti sarebbe assordante.

Mentre fumo una sigaretta su questo ponticello di prua mi sento terribilmente solo, ma non provo nulla. Nessuna sensazione, niente da dire. Si può non provare nulla?

Cerco di riposare ma c’è qualcosa che mi spinge a stare su quel ponte e a non rientrare sul “deck 4” che abbiamo scelto con cura io e i miei compagni di viaggio. C’è qualcosa che ti incolla all’orizzonte, c’è qualcosa che ti paralizza, quel qualcosa si chiama alba. E io un’alba così non l’ho mai vista.

A tutti è concessa la notte come il giorno, a pochi i tramonti e ai temerari l’alba, ora difronte a me c’è un sole che nasce e una terra che si scopre miglio dopo miglio. È alba sulla Terra delle Aquile… è Oriente.

Qui, su questo ponte, nessuno grida “terra terra”, non ci sono né premi in denaro né riconoscimenti, non c’è nessun marinaio appollaiato sull’albero di velaccio a scrutare l’orizzonte, la meta è già segnata. Forse quello che ci chiede oggi il mondo non è nient’altro che ricominciare a guardarlo con occhi curiosi, da bambino, gli stessi occhi di chi oltre 500 anni fa faceva della curiosità la cifra della conoscenza.

Accanto a me una coppia, forse marito e moglie, guardano lo stesso spettacolo che osservano i miei occhi, lui appoggiato alla ringhiera, lei a lui. Ogni tanto si guardano negli occhi sorridono, lui le chiede qualcosa di incomprensibile per me, lei sorride e lo abbraccia. Poi lui si gira verso di me e mi dice “Albania, Durazo”, i suoi occhi sottili sorridono, credo anche i miei. Forse il poeta ottocentesco Vaso Pashko aveva proprio ragione: la religione degli albanesi è proprio l’Albania stessa.

Lasciare il traghetto “Francesca” e toccare nuovamente terra ti spaesa, hai bisogno di punti fermi di certezze che sicuramente mancarono proprio su questo molo, in quell’agosto di ventisette anni fa, a quei ventimila albanesi che assaltarono la nave mercantile Vlora costringendo il comandate Halim Milaqi a salpare verso il porto di Bari. Chissà se per davvero sono riusciti a spezzare tra le onde le loro catene. Ventimila catene unite tra loro da un anello chiamato “Illiria”.

Il Dejes visto da Gjoçaj

Uscire dal porto di Durazzo è stato un gioco da ragazzi anche se il caldo di queste ultime giornate di aprile ci rende ogni passaggio tremendamente complicato. Durazzo da lontano sembra un porto europeo, ben organizzato e strutturato dove tutti hanno una mansione, tutti sanno cosa fare, ma man mano che ci si allontana dal mare l’idillio svanisce.

Tra sorpassi inconcepibili anche per un italiano e rotatorie dove la precedenza è un optional ordinato, ma mai consegnato, raggiungiamo Burrel un paesino del centro-nord dell’Albania, capoluogo della regione del Mat, che ha dato i natali a una delle persone più influenti del paese delle aquile: re Zog I. Oggi del suo ricordo sbiadito non ne rimane che una statua che troneggia in una piazza a lui dedicata.

In un bar del “corso” ci aspetta Hardy un grande amico del Gruppo speleo, uno di quelli che mi racconta “lavoro per il ministero del turismo albanese”, un geografo, uno che sa gestire molto bene i contatti, un ottimo politico insomma. Ha studiato a Tirana, è stato un allievo di Perikli Qirjazi e Skender Sala, i primi contatti albanesi che il nostro gruppo ha avuto la fortuna di avere all’inizio degli anni Novanta e che hanno permesso di far proseguire la conoscenza di questo territorio.

Dopo i saluti di rito ci sediamo attorno a un tavolino all’ombra di un paio d’alberi e ordiniamo il primo caffè turco. Un caffè con il quale non vado molto d’accordo nonostante la preparazione molto accattivante fatta nel cezve con poco, niente o molto zucchero. Sicuramente più elaborato di un semplice “espresso”, ma dal gusto di moka senza guarnizione. Qui il caffè è un rito, un rito davvero importante che potrebbe addirittura accompagnare l’intera mattinata di un avventore. Qui non c’è nessuno che beve un caffè al bancone del bar in piedi, qui il caffè va bevuto lento e piano, va bevuto seduto, va chiacchierato. Tutto il resto, chissàdio se esiste qui un resto, può aspettare fuori.

Hardy parla un italiano molto fluente e dopo averci offerto il caffè e risposto alle mie mille domande sull’Albania e l’Europa ci accompagna a cambiare gli euro in lek.

1 euro = 128 lek. Arriverà mamma Europa e sarà inflazione, svalutazione e per molti non sarà né sera, né mattina.

«Qui meglio di banca Tirana»- ci accoglie così l’improvvisato cambiavalute padrone di una modesta oreficeria, sventolando una mazzetta davvero enorme di lek.

«Amico mio, quanto?»

Ringrazio con un “faleminderit” pronunciato come quando da piccolo mi facevano recitare le poesie a tavola a Natale e cerco di raggiungere gli altri. Per la strada tra un negozio e l’altro ci sono persone che vendono cose: frutta, cipolline minuscole, scarpe, calze, lavatrici, pentolame, uno attaccato all’altro, in fila. Un patibolo chiamato Europa.

«Loro -commenta Hardy- saranno i primi a smettere di lavorare in questo modo, dovranno adeguarsi, ma per il momento aspettiamo che tutti i paesi dell’Unione diano il parere positivo alla nostra entrata, poi si vedrà. »

Siamo nuovamente in marcia, una lunga marcia tra “rrughe” impraticabili, anche per il Land Rover di Angelo V. che nonostante le ruote maggiorate implora pietà. Finalmente siamo in quota quando raggiungiamo l’incrocio tra Dukagjini e Macukull due villaggi che condividono una scuola, qui abbiamo appuntamento con la nostra guida Durim, con lui, come ad attenderci, ci sono due giovani ragazzi: Cleant che guida con molta sportività un quattro ruote motrici d’annata e Clevis un piccolo pastore che ci guarda  con occhi curiosi, come se fossimo di un altro mondo.

Durim dopo averci salutato come si salutano i vecchi amici, monta in macchina con noi e ci porta in una casa tutta distrutta con il tetto in lamiera e tegole disastrate.

Sulla “rruga” che da Dukagjini conduce con molta fatica a Gjocaj potete trovare un bar che non ha insegne, ha un porta di legno mezza rotta e un solo tavolo mezzo rotto con un paio di sedie di plastica. Il bar pare essere gestito da una coppia di bambini decenni e un anziano signore che dal piglio sicuro dovrebbe essere il titolare della ditta. Al suo interno scopriamo che non è un semplice bar è ma un vero e proprio emporio, una piccola bottega nel quale troneggia una bandiera dell’Albania gigantesca, con la quale ogni albanese ha un rapporto davvero indissolubile. Ordiniamo della birra per tutti e poco dopo siamo di nuovo in marcia.

La strada diventa sempre più disagevole: si discende un brutto versante che porta a valicare il torrente Flimit su un improbabile ponte di legno marcio e travi e ferro arrugginite. Una volta arrivati su un piccolo altopiano attendiamo l’arrivo di Flamur, la nostra guida e referente locale, con la sua morra di pecore, che ha segnalato una grande shpella a Pino, lo scorso anno. Aspettiamo oltre tre ore, ma di Flamur non c’è traccia, fino a quando la nostra guida ci comunica che il pastore non è più disposto ad accompagnarci.
“Dice che c’è l’oro al suo interno”.

Cazzate! Qui quando c’è “dell’oro”, o c’è della marjuana, o una tomba di qualche morto ammazzato. Qui vale la regola che se la grotta sta nella mia proprietà allora la grotta è mia, punto e basta.

Lo speleo è abituato a questa storia dell’oro, ne siamo vittime consapevoli, leggende che si tramandano di padre in figlio per generazioni e così sia. Qui di oro non ce ne sta nemmeno a portarcelo. Sconsolati più per l’attesa che per non aver potuto esplorare sta fantomatica grotta di Ali Babà, cambiamo programma e ci dirigiamo a casa di Durim per la notte. Strada impraticabile, si arriva con le macchine solo fino ad un certo punto, poi la mulattiera finisce e si prosegue a piedi. Una serie di viaggi a testa ci assicura la notte e una pasta con pancetta accompagnata dall’ottimo burek, una specie di pasta sfoglia turca ripiena di verdura e formaggio, fatto da Ariana, la moglie di Durim.

La raki ci dà il benvenuto in questa terra meravigliosa, ricca di contraddizioni. Gëzuar per noi.

Il bar emporio sulla strada che da Dukagjini conduce a Gjocaj

Duri qualche settimana fa ha finito di mettere a posto la stanza dove dormiamo: una camera di qualche metro per qualche metro con bagno incluso. Un bel lavoro, funzionale, credo abbia speso molti lek e a quanto pare, come cerca di raccontarmi, mentre “fulminiamo” una sigaretta, per realizzare tutto questo si sia venduto una mucca, una di quelle buone, una di quelle che fa tanto latte.

L’indomani, partiamo subito dopo aver fatto colazione imponendoci di non bere raki contravvenendo alle regole di ospitalità albanese. Dopo una buona ora di cammino sul versante orientale basso del Mali e Dejes, tra sentieri battuti dalla nostra guida, arriviamo al primo pozzo. A scendere sono Michele P. e Mimmo. Mentre Mimmo arma, Durim prepara un caffè solubile con acqua ghiacciata e, all’ombra di un masso ci racconta un po’ di come vanno le cose in Albania, di come il paese delle aquile si stia occidentalizzando, ma nonostante tutto il Mali Dejes resiste. Ci racconta di come tutto sia cambiato dopo la fine del regime comunista di Enver Hoxha e di come tutto sommato, prima, quando c’era lui, tutto funzionava meglio «pochi lek, ma per tutti».

Oggi è tutto diverso, quando hai difronte a te una montagna come questa l’unica certezza è lei, non esiste nient’altro. La montagna tutto dà e tutto toglie, è tutto, il resto non conta più. Quella montagna bisogna rispettarla, bisogna custodirla, amarla.

Duri, lui preferisce essere chiamato così dagli amici, quando cammina tra i sentieri si muove agile, passo sicuro, mai incerto, ha occhi ovunque, governa il suo cavallo con un piccolo ramoscello di carpino, un albero che qui contorna i bassi pendii. Ha riflessi pronti ha movenze regali, fulmine, lui è uno che resiste. Duri sa che noi non abbiamo mire di conquista, vogliamo solo ridare a quel monte quello che ancora non conosce, senza presunzione, ridare. Restituire. Non c’è nessuna teoria antropologica che tenga, solo conoscenza.

Ai bordi del pozzo troneggia “la bella donna”, un’erba che cresce in maniera infestante e che contorna le due grotte. Produce delle bacche nere dalle quali si ricava un veleno mortale capace di ammazzare un uomo in pochissimo tempo, ma al suo cospetto, tra ciò che rimane della sua ombra, compaiono delle piccole piantine di fragoline di bosco troppo giovani e immature per portare frutti.

Pus Rraza e Curruj è il nome del pozzo che ora sta risalendo Michele P., un pozzo a neve che nel novembre scorso (2017) Pino ha individuato in una sua pre-spedizione invernale. Mimmo, una volta fuori, ci racconta che dopo il pozzo iniziale di 25 m si arriva al fondo, un meandro che poi chiude, lasciando passare un piccolo rivolo di acqua.

Duri è ovunque, controlla tutti e si assicura che tutto vada per il verso giusto, tra una pausa e l’altra si accende una sigaretta e sorride.

«Di lì Kossovo».

Il Kossovo non esiste.

Mi racconta che il Kosovo non è mai stato serbo, in Kosovo c’erano gli albanesi, c’erano… ora non ci sono più sono finiti a Durazzo, Tirana, forse qualcuno è ritornato, forse no. Stessa storia che accomuna tutti i Balcani: dall’Istria alla Turchia, da Trieste a Smirne, gli spostamenti di popolazione servono solo ai governi, non alla gente comune. A sud dei Balcani devi avere sempre pronta una valigia sotto il tuo letto.

Intanto i due, Michele P. e Mimmo, entrano anche nella seconda grotta, Pus Rraza e Palnies, a poco più di un centinaio di metri dalla precedente, sempre individuata da Pino a novembre, lo sprofondo è un pozzo di circa 27 metri che chiude su un meandro.

Più passa il tempo e più ci accorgiamo che il Dejes è un vero e proprio scolapasta; tante grotte fossili che si chiudono dopo qualche decina di metri.

La sera scende veloce tra queste montagne dove l’agnello che sfrigola nel forno a legna chiede vendetta. Il padrone di casa dopo aver acceso una sigaretta tira fuori una nuova bottiglia di raki e cominciano le danze.

Mentre scrivo, mi sistemo a favore di tramonto.

All’improvviso, la mano di Dava, una vecchietta di 86 anni, mamma di Duri, con problemi alla vista e con terribili mal di testa a carico, mi sfiora il braccio. Dava, come tutte le donne albanesi, conserva una fierezza e una forza che sono difficili da raccontare. Una giovinezza forse sfiorita troppo in fretta dopo aver dato alla luce dieci figli che ogni mese se la condividono per portare a casa un minimo di pensione della mamma.

Dava si siede vicino a me e spia quello che sto scrivendo, mi sorride.

«Scrivo, Pino: come si dice scrivere in albanese?»

«Lui, poeta».

«Poet?!» ride Dava, ride tanto.

Mi metto a ridere anche io, nonostante pensi che il termine “poeta” sia abbastanza fuori concorso e che a furia di semplificare, la nostra immaginazione ogni giorno tenti il suicidio.

Mentre cerca di dirmi delle cose davvero incomprensibili usa ferri e lana, incuriosito le chiedo cosa stesse creando: «Babbucce».

Delle calze basse in lana utili per camminare dentro casa e per tenere caldo il piede.

Le chiedo se mene fa un paio per andare in sphella, lei ride e mi benedice con tutte e due le mani sulla mia testa, riesco a capire solo un Inch’Allah, buttato così. Prendo e porto a casa.

Finalmente ceniamo con l’agnello del gregge di Flamur, cucinato al forno con delle patate, qui si pasteggia con raki e vino e per concludere vodka russa ghiacciata proveniente dall’ultimo viaggio di lavoro del nonno, accompagnata da tocchi di pancetta.

«La bevono così lì, accompagnata dal lardo, noi abbiamo la pancetta, va bene lo stesso o no?».  Na zdorovye, per noi.

Dava che fabbrica delle “babbucce”

La notte è stata molto turbolenta, l’alcol rallenta i pensieri, li fa assopire un po’ come fa questa terra con la sua storia passata. Ognuno ricorda il proprio passato, ognuno sa da dove previene, ma tutti fanno finta di nulla. I ricordi sono lì a portata di mano, pronti per essere presi e rimessi in ballo, per poter capire dove andare e cosa fare, ma qui si temporeggia. Si temporeggia per fare qualsiasi cosa, prima caffè e raki, poi tutto il resto. L’Europa chiede fretta e qui si risponde con la calma. Con la flemma.

Ieri sera a cena con Duri abbiamo parlato degli arbereshe, di mio padre nato a Carosino e della madre di Mimmo nata a San Giuseppe di San Marzano, entrambi paesi di origine arbereshe, fondati da Scanderbeg, quando nel XV secolo il re di Napoli, Alfonso V d’Aragona, il Magnanimo, chiese aiuto all’atleta Christi per reprimere una congiura di baroni. La ricompensa per questa operazione furono delle terre in provincia di Catanzaro, e molti arbëreshë ne approfittarono per emigrare in terre sicure e lontane dall’avanzata degli Ottomani, in molti, emigrarono in altre zone dell’Italia peninsulare.

Sì, qui nel Mediterraneo siamo tutti cugini.

Questa mattina decidiamo di andare a esplorare l’ennesima sphella: Sharra e Pore, una grotta trovata da Selim qualche mese fa. Selim è un anziano, amico della nostra guida Duri, capelli bianchi barbetta incolta, gambe salde.  Il lungo sentiero che divide noi da casa di Selim passa per un fitto reticolo di mulattiere , boschi e recinti da superare. Sul Mali Dejes, mi racconta Duri, che le tombe dei parenti si trovano lungo i confini di proprietà. Durante la marcia passiamo infatti dal cimitero della famiglia Murrani, le tombe dei parenti di Duri.

Cammino in fila indiana, perso nel paesaggio albanese, quando mi accorgo che Duri si stacca dalla fila e si muove in direzione delle lapidi. Una volta difronte alla tomba di suo padre appoggia una mano sul cuore e si accende una sigaretta e la lascia sulla pietra sepolcrale.

Mi racconta che ogni qual volta passa da qui si ferma e si fuma una sigaretta con suo padre e poi prosegue il suo viaggio.

Mi avvicino a Duri, in silenzio, ci scambiamo solo un cenno con la testa, a volte non servono parole, qui il rispetto vale più di mille parole.

Pino, bastone, pantaloni di velluto e maglietta rossa serra le fila, la casa di Selim è ormai vicina. Ce ne accorgiamo dall’odore acre delle capre.

Pugno chiuso appoggiato alla fronte «Comandante Pino».

Il “Comandante Pino”

Selim onora Pino con il saluto dei comunisti albanesi e dopo qualche secondo alle sue spalle compare la moglie che ci incita tutti noi ad entrare in casa.

Gli albanesi sono ospitali per definizione, l’ospite è sacro, l’ospite si onora, si rispetta.

Dopo il consueto gesto di togliersi le scarpe prima di entrare in casa, Selim ci accomoda con caffè turco e raki. Sono solo le 10 del mattino, fa un caldo che metà basta e la raki brucia in gola e nello stomaco.

Dopo una mezzora di convenevoli e di descrizioni di grotte, decidiamo di rimetterci in marcia. Quando la strada chiama qui tocca rispondere “presente”.

Finalmente siamo sul pozzo individuato da Selim: Sharra e Pore 1. A scendere questa volta sono Angelo e Mimmo, la grotta è profonda una decina di metri e come al solito chiude al fondo.

Dopo aver pranzato con mandorle e frutta essiccata ci muoviamo e individuiamo una grotta a poche centinaia di metri in linea d’aria: Sharra e Pore 2, cavità simile alla prima. Mentre i due grottaroli disegnano il rilievo, con Michele perlustriamo la zona e troviamo un inghiottitoio fossile sul fondo di una dolina a ridosso di Macukull, un paesino di 1500 anime.

Oltre cento metri di gallerie che si articolano in un dedalo che chiude in una strettoia tappata con fango e detriti. Dopo averla rilevata, operazione che porta via molto tempo per un guasto alla strumentazione risolto da Michele e Pasquale, finalmente prendiamo la via di casa.

«Se non troviamo la profondità almeno portiamo la quantità».

Sharra e Pore 2

Sulla strada per casa incontriamo il cugino di Duri, un uomo sulla cinquantina con camicia bianca e pantaloni di fustagno. È un po’ alticcio e in un francese stentato, il suo, ma anche il mio, racconta di essere un professore di francese.

«Tu es très intelligent», «tu parle francois tres bien».

Mi abbraccia, mi tiene la mano, non comprendo cosa voglia davvero, forse solo incontrare qualcuno che ha da raccontare qualcosa di nuovo in questa parte del mondo dove non sembra succedere mai nulla.

Facciamo la strada insieme ma non nascondo una leggera insofferenza al suo ripetuto contatto fisico e alla sua voglia di bere raki con noi.

Duri si accorge della mia insofferenza e mi racconta che qui, su questi monti, i cugini sono molto più che fratelli, c’è un rispetto e un senso di appartenenza che travalica i legami di sangue.

Mentre gli altri cucinano decidiamo di andare a trovare un amico del gruppo: Hysni, un commerciante che gestisce un emporio. La strada che collega le due abitazioni è disastrata come poche, a stento credo che una macchina possa passare da questa rruga eppure, ci racconta Duri, che su queste strade ogni mattina una furgona passa per portare chi ha commesse da svolgere a valle e i giovani alle scuole superiori a Burrel.

Arriviamo a casa di Hysni, ad accoglierci un cagnone enorme che immediatamente ci fa le feste. Dopo aver suonato il campanello della bottega collegata alla casa, finalmente compare il padrone accompagnato da sua moglie, una signora sorridente che immediatamente riconosce i due Michele.

Hysni ha barba ispida e sorriso a 32 denti ci accoglie con un abbraccio sincero come si salutano i vecchi amici.

«Cosa cercate?»

«Birra e sphella» sempre meglio del viatico di Vasco de Gama: Cristiani e Spezie.

Hysni ci offre immediatamente caffè e raki, sono circa le 21:00 e so che questo caffè turco non mi farà dormire. Scoprirò più tardi che l’effetto del caffè si annulla con un’ottima pasta e fagioli.

Qui la vita, forse più che in altri posti, va percorsa a piccoli passi. Non bisogna mai fermarsi, con il padrone di casa brindiamo alla vita mentre sul Dejes spuntano le stelle sempre più luminose e una mezza luna che placida custodisce i nostri sogni di avventura.

La notte porta consiglio.

Con l’ultima birra di ieri sera si è deciso di svegliarci presto, molto presto. L’obiettivo è una grotta individuata da Selim sulla spalla meridionale dell’Arneshta, intorno a quota 1600m. Partiamo presto perché qui il sole picchia duro e siamo già tutti ustionati.

Si cammina parecchio in salita e con poche soste. La meta sembra allontanarsi sempre di più. Finalmente tra le alte incontriamo Selim con fucile in spalla. Sembra uno di quei guerriglieri del Poum della guerra civile spagnola: camicia di flanella pantaloni di velluto e scarpe sformate da terreni impraticabili. Selim va su come un treno. È instancabile.

Quella di fronte a noi è una montagna infame, qui non si cammina, ci si arrampica, su queste creste che sembrano lame, il fiato manca, il cuore accelera e il sole mena.

Sentiamo tutti il bisogno di fermarci spesso, bere e mangiare frutta secca.

Occorre rimanere concentrati su questa montagna che sale verticale dritta verso il cielo con uno strapiombo che lambisce sempre i passi falsi. Siamo ancora ben sotto la cima, c’è neve e la grotta sembra scomparsa. Nemmeno Selim riesce a trovarla.

Cerchiamo un’ombra, ma questa montagna offre pochi ripari e i pochi alberi sono bruciati da quelli che sembrano fulmini caduti in un temporale estivo.

Né Zeus, né Dio, né Allah sembrano aver avuto pietà di questo posto.

Dopo una lunga pausa ricominciamo a cercare quella che sembra più un miraggio che realtà. Finalmente Duri riesce a individuare la grotta, molto più in basso della nostra posizione. Ad affacciarsi è solo Michele M. che in libera racconta che la sphella dopo un paio di salti si tappa, come tutte le altre. Anche la fantomatica descrizione di una grotta senza fondo si è rivelata un amaro scherzo della fantasia.

Ripartiamo in discesa finalmente, ho gambe molli, ma allo stesso tempo indurite, ogni passo chiede caviglie buone e io in questo pecco dalla nascita. Lungo il lungo cammino che ci separa da casa base individuiamo altre grotte tutte uguali: un salto di 10- 20 metri e poi tappano sul fondo.

Siamo stanchi e quello che vogliamo è una birra ghiacciata, fumare un paio di sigarette e riposare.

Beviamo per allontanare la stanchezza e l’ennesimo insuccesso, ai grottaroli della domenica – come chiamava i fondatori del Gruppo, Pietro Parenzan – serve la profondità per portare a casa qualcosa, ma qui la profondità è solo negli occhi di questi guerrieri che abitano il Dejes e nella grotta trovata da Andrea Gobetti qualche anno fa a fondo valle.

Ai fornelli Pino cucina una pasta al tonno straordinaria e per secondo dell’agnello al forno. Mangiamo come se non ci fosse un domani, mangiamo e beviamo per salutare il gruppo di partenti che domani partiranno per ritornare in Italia. Gëzuar ad Angelo V., Angelo C., Pasquale e Mimmo.

Uno scorcio dell’Arneshta

Sono seduto in un bar al centro di Tirana di fronte a me Skender Sala un professore di geomorfologia dell’università di Tirana.

I tavoli di tutti i bar sono pieni di ragazzi che stanno.

Un caffè dura tre ore, guardano al di là del proprio tavolo, il loro orizzonte è a portata di strada.

«Il problema dell’Albania è la droga, quando c’era Hoxha non ce n’era, ma nonostante questo lui ci ha rovinato, abbiamo perso troppe occasioni».

Parla piano Skender e quando lo fa ti guarda dritto negli occhi, ha una proprietà di linguaggio impressionate e mentre racconta pesa le parole snocciolandole una dopo l’altra con una fierezza che quasi fa paura.

«Ora aspettiamo l’Europa e gli stati comunitari che ci diano parere positivo, per noi tutto cambierà, bisogna riformare la giustizia e il nostro sistema fiscale, troppi pochi ricchi con molti soldi e troppi poveri, troppo poveri»

L’Albania ora aspetta, aspetta che qualcosa cambi, prima o poi. È difficile far finta di nulla, ma lungo le strade dell’Albania uomini e donne aspettano, non si sa chi o cosa.

La cazzata del filosofo Gotthold Ephraim Lessing che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, qui fa a cazzotti con la povertà che spezza le reni a chi sbarca il lunario raccogliendo erbe selvatiche che multinazionali tedesche comprano per realizzare farmaci.

Mi suona terribilmente strano che nel 2018 ci sia ancora gente che qui di lavoro fa il raccoglitore, come se fossimo nel Neolitico dove le proto società primitive si organizzavano raccogliendo e cacciando quello che la natura selvaggia produceva. Mi chiedo come sia possibile oggi che si riesca a campare, a mandare i propri figli all’università, a vestirsi, a vivere insomma, raccogliendo ramoscelli ricchi di iodio.

Come potranno sopravvivere alla mannaia di mamma Europa?

Pago i caffè e salutiamo Skender e Perikli Qirjazi che nel frattempo ci ha raggiunto per salutarci e consigliarci sul prosieguo del nostro viaggio in Albania.

Direzione Tepelene, un comune e a Sud Est di Valona che bordeggia Argirocastro, dopo essere finalmente usciti dal caos di Tirana e dalla prepotenza delle rotatorie: «Fate attenzione – si è raccomandato Skender – il 60% qui gira senza patente e senza assicurazione.»

Finalmente abbiamo difronte a noi una strada che può chiamarsi tale. Il percorso è lungo con lunghi rettilinei dove si alternano minareti a campi coltivati a mais, tutto intorno monti che si ricorrono e cime innevate che si susseguono regalandoci un paesaggio che diventa sempre più mozzafiato, unico nel suo genere.

Dopo circa tre ore incontriamo un cartello stradale che ci avvisa di essere arrivati a Tepelene, sono quasi le 20 e 30 e dobbiamo trovare un posto dove passare la notte. Nonostante una movida d’annata dobbiamo fare in fretta anche perché difficilmente questa durerà ancora per molto. Una coppia di poliziotti fermi a una rotonda ci dà indicazioni per un probabile albergo.

Uno dei due poliziotti ci rassicura dicendo che Giovanni, il proprietario di un hotel distante da lì poche decine di metri è un suo amico e accompagna me e Pino a conoscere questa macchietta di albergatore.

L’hotel di Giovanni si chiama Hotel, punto.

Giovanni più che albanese sembra un napoletano tarchiatello che cerca di convincerci a tutti i costi a giocare con lui alle tre carte. Faccio notare al partenope orientale che noi non abbiamo altra scelta e di darci due camere, due qualsiasi. La contrattazione con Giovanni è così surreale che persino Pino se la ride. Secondo Giovanni il cambio Lek – Euro è grosso modo 1 a 3.

Non ho mai visto perdere così tanto tempo come quado l’aquila cercò di imparare a volare da un corvo.

Dopo aver fatto finta di registrare i nostri nomi su un registro fatto di fogli volanti nell’ordine: Michiel Maraza, Pino Parmizan, Michiel Pastor e Roberto Roma, paghiamo, e il buon Giovanni, ci consiglia un ristorantino dove il cameriere parla italiano e che per pochi lek ci farà assaggiare la cucina tipica albanese.

Anche lui ci rassicura dicendo che il proprietario del ristorante è un suo amico.

«Giovanni non sempre questa raccomandazione sortisce il risultato sperato».

Ad accoglierci sulla porta del ristorante c’è Ergi un ragazzino di 15-17 anni che parla un ottimo italiano e che ci tratta davvero con i guanti.

In tv c’è la semifinale tra Bayern Monaco e Real Madrid e Giovanni è stato molto chiaro

«Quando partita finisce Giovanni va a letto e chiudo hoteli»

Alle 23:00 siamo nella nostra stanza al terzo piano, Giovanni ci aspetta sulla porta, è contento perché il Real ha battuto i tedeschi, ci augura la buona notte spegnendo tutte le luci «natën e mirë».

Buona notte Tepelene e buon 25 aprile a noi.

La mappa regalata a Pino da Skender Sala

Ci svegliamo molto presto, mentre esco dalla mia stanza incontro Pino e insieme decidiamo di andare a bere un caffè in un bar che ha un giardino con affaccio sul Maja e Kendrevices un monte di tutto rispetto con i suoi quasi 2200 metri. Prima di fare sosta nel bar passiamo dalla macchina per lasciare i bagagli e mi accorgo che l’hotel di Giovanni sovrasta la piazza dedicata ad Ali Pascià Tepeleni, il Leone di Giannina. Una statua nella piazza principale ricorda le gesta del brigante da sempre in lotta con lo strapotere ottomano che diede lustro prima all’Albania e poi alla Grecia e che divenne alla fine Pascià di un regno quasi indipendente con capitale Giannina sotto il beneplacito della Sublime Porta.

Anche Lord Byron volle conoscere ‘sto fenomeno di Ali Pascià scrivendone le sue memorie. Personaggio affascinate che nelle descrizioni del poeta britannico non sempre veniva dipinto con ammirazione a causa della sua crudeltà nonostante fosse innegabile lo splendore della sua corte. Lo stesso vale per Alexandre Dumas che nel Conte di Montecristo volle rendergli onore, il francese romanzando un po’ la fine del tiranno  raccontò che venne prima tradito da un ufficiale francese, Fernand Mondego, e poi venduto agli ottomani, stessa fine che accadrà alla moglie e alla figlia Haydeè. Naturalmente il buon Edmond Dantès aiuterà la figlia del pashà a vendicarsi di Mondego.

Una vulgata questa che non corrisponde a realtà, infatti nel 1822 fu il Sultano Mahmud II a inviare un grande esercito in assalto di Ali e della sua capitale Janina. Ingannato da una promessa di perdono, Ali decise di incontrare gli inviati del Sultano in un monastero sull’isola del lago di Janina, ma qui venne attaccato dai soldati, catturato e decapitato. La storia ci racconta come finì la sua incredibile ascesa al potere: il corpo fu sepolto a Janina, fuori dalla moschea del castello, mentre la testa fu inviata a Istanbul come simbolo della sua morte. Solo dopo fu consentito che la testa venisse sepolta con tutti gli onori in un cimitero di Istanbul, dove si trova ancora oggi. Così Ali divenne l’uomo dalle due sepolture, una a Istanbul e una a Janina.

Mentre ci confrontiamo sul percorso consultando una mappa dell’Albania regalataci da Skender beviamo l’ennesimo caffè e saliti in macchina percorriamo i primi spalti del Kurvelesh, la lunga strada che da Tepelene conduce a Nivice passando per Lekdush, Progonat e Gusmar.

La strada è una di quelle che ogni tornante fa esclamare a Michele M. che guida instancabilmente da diversi giorni ormai: «Questi sono matti, come si fa a chiamarla strada una mulattiera del genere».

A Gusmar cerchiamo informazioni in una specie di minuscolo municipio che un tempo ospitava una chiesa ortodossa ancora riconoscibile da uno stipite della porta.

La ragazza che ci accoglie parla un po’ d’inglese, naturalmente sempre meglio del mio.

Le chiediamo se sa se in giro ci siano delle caves, ma ci risponde di no con la testa.

Qui nessuno sa nulla, ormai siamo rassegnati e sono solo le 11 del mattino. A Progonat ci sono 2 bar uno difronte all’altro (scopriremo più tardi che i bar in realtà sono tre e sono suddivisi in base alle fazioni politiche) per non far torto a nessuno decidiamo di non bere nessun caffè, ma di proseguire lungo la strada verso Nivice per osservare dall’alto il canyon che sembra tagliare in due l’Albania . Qui, nel niente, incontriamo un ragazzo con un pick-up rosso fiammante, che in inglese e ci dice che a pochi chilometri da Gusmar c’è un suo cugino che parla perfettamente italiano e che sicuramente sarà felice di rispondere a tutte le nostre domande.

Lo seguiamo e ci conduce a un fondo dove sono stati piantati da poco degli alberi di noce e di castagno. A osservare uno di questi “nani verdi” c’è un ragazzo con auricolari e telefono in mano.

Seduti poco più in la due anziani che sembrano preparare degli innesti. Alle spalle due risorgenze carsiche che da lontano mi fanno ben sperare. L’entusiasmo svanisce subito dopo quando le osserviamo da vicino, due piccole gallerie che forse un tempo, molto remoto, erano state delle condotte di una risorgenza.

Finalmente conosciamo il famigerato cugino, un ragazzone che di albanese ha solo i lineamenti del viso. Si chiama Miklovan, è stato 22 anni in Italia ha lavorato a Vicenza, in un salumificio, si è pure sposato e dopo aver divorziato ha deciso di tornare in Albania e di puntare tutto sul suo progetto di vita.

Miklovan vuole creare una azienda che esporta noci biologiche. Immagina che tra qualche anno sarà in pieno commercio e che i proventi di quel duro lavoro serviranno a creare un bar castello con affaccio sul canyon dove si potranno sorseggiare cocktail e spritz.

Mentre ce lo racconta, davanti a un caffè a Nivice, a me un po’ viene da ridere.

«Ma Miklovan non c’avete nemmeno le strade, come arriva un turista qui?»

«Arriverà, arriverà e io sarò pronto».

Lo dice con una fierezza che mi sconvolge e che mi fa sentire un occidentale del cazzo, uno di quelli che è abituato a ragionare con il culo degli altri e un po’ mene vergogno.

«Qui in Albania è tutto diverso dall’Italia. Immagina le scale. La gente normale sale le scale un gradino alla volta e, mentre sale quel gradino accumula esperienza. Noi qui, dopo il comunismo, abbiamo salito dieci scalini alla volta, senza fare nessuna esperienza. Le fondamenta sono troppo deboli, ma se non investiamo noi che ancora ci crediamo chi deve farlo? Io ci credo».

Mi spiazza. E per la seconda volta in meno di quindici minuti mi accorgo che se per davvero vogliamo comprendere questo meraviglioso popolo dobbiamo capovolgere schemi e sovrastrutture di marxiana memoria.

Dopo aver salutato Miklovan e aver misurato con lo sguardo ogni centimetro di quel meraviglioso canyon decidiamo di cercar grotte sulla strada che da Gusmar arriva a Kuc.

«Ragà, guardate che la strada è terribile e a un certo punto si passa nel fiume… io ve la sconsiglio, poi fate voi».

«No, tranquillo “Michelone” (immediatamente ribattezzato così da Pino) abbiamo fame di grotte, ci proviamo».

Torniamo indietro verso Gusmar e imbocchiamo quello che sembra un sentiero minato. La strada non è terribile e qualcosa di indescrivibile, tornanti e buche che a Roma se le sognano, una mulattiera talmente stretta che a volte stento a pensare che da li si possa passare. Da un lato la montagna dall’altro uno strapiombo che finisce in un fiume in secca a diversi metri di profondità.

Dopo innumerevoli tornanti siamo a fondo valle e, immediatamente ci accorgiamo che quello che Miklovan aveva omesso nel dirci era che la strada è lo stesso letto del fiume.

C’è silenzio intorno, da qui non passa un’anima viva, «qui manco gli avvoltoi ci verranno a cercare».

Ad un certo punto il vecchio corso del fiume incrocia il torrente Shuri –Kuchum che scende dalle sorgenti del versante meridionale del Mali e Murebi, a Michele e alla sua jeep tocca dragarlo, ci riesce una prima volta, poi una seconda, ma al terzo passaggio, il torrente si ingrossa e la corrente aumenta come la sua profondità.

«Più avanti c’è acqua» ci aveva avvisato una comitiva di italiani che a bordo di una decina di quod ingannava il pomeriggio.

Dai nostri calcoli mancherebbero un paio di chilometri a Kuc, ma quel passaggio ci blocca.

Per capire la possibilità o meno di andare oltre quell’ostacolo naturale dobbiamo vagliare sia la profondità e sia la corrente. Ad immolarsi è Michele che spogliatosi, testa le acque

«L’acqua supera il ginocchio arriva quasi alla coscia, qua rischiamo di rimanerci, provo a vedere più avanti se ci sono altri passaggi».

Un uomo in mutande e scarpe da trekking si aggira su quello sterrato alla ricerca di una soluzione, nemmeno Indiana Jones avrebbe osato tanto.

Tanto da li chi ci passa?

Al di qua della sponda sicura gli altri cercano di colmare la profondità di quel pezzo di torrente infausto lanciando pietre nel punto più depresso, mentre qualcun altro ipotizza con calcoli fisico-geometrici, quasi ingegneristici una fantomatica deviazione dello stesso fiumiciattolo costruendo una diga con la teoria dei vasi comunicanti e una pietra piccina. L’intifada albanese.

L’idillio finisce solo quando l’uomo in mutande e scarpe da trekking corre verso di noi.

«Sta arrivando una macchina».

Un pick-up guidato da un ragazzo sulla quarantina con accanto una signora anziana e una capra legata nel cassone affronta dal lato ribattezzato “vietnamita” l’infame rigagnolo.

Al primo tentativo il pick-up finisce di muso in acqua. Al secondo, sgommando e slittando riesce a passare, dicendoci delle cose incomprensibili. Secondo qualcuno semplicemente ci avvisava che se nel caso stavamo cercando un uomo in mutande e scarpe da trekking era poco più avanti.

Decidiamo così, a meno di un km, di onorare il compleanno e la macchina del presidente tornando sui nostri passi.

Dopo un’oretta di salite interminabili siamo di nuovo a Gusmar, mangiamo del cioccolato a bordo strada e fumiamo una sigaretta.

«Mannaggia al nemico della madonna, cosa siamo alle medie? Possiamo andare a bere delle birre e festeggiamo come si deve il compleanno di Michele M.?»

Agli speleo piacciono molto le domande retoriche.

Torniamo dai nostri amici di Nivice, ribecchiamo Miklovan per la strada e gli intimiamo di festeggiare con noi.

Alle 18:00 siamo al secondo giro di birra: a Miklovan si è aggiunto Walter, ex imbianchino che è stato in Italia a Roma a dipingere ville di calciatori della As Roma più o meno famosi.

Sono le 20:00 e ancora siamo senza una casa nella quale cucinare qualcosa e passare una notte tranquilla. Miklovan ci risolve entrambi i problemi.

Passeremo la notte a Nivice a pochi metri da quello che un domani, forse non molto lontano, diventerà il centro di questo paese a metà tra l’abisso e il nulla.

Un’amatriciana senza pietà, rigorosamente senza cipolla ma con litri di birra e un sorso di raki con buoni amici fa scivolare via quest’altra giornata che stanca si appoggia ai piedi del Kurvekesh.

Sul Dhembel

«La besa qui da noi è un precetto, è la nostra identità, nessun albanese che può chiamarsi tale può fare a meno di seguirlo».

Ho pensato tutta la notte alle parole di Miklovan ieri a cena.

Ed è difficile provare a spiegare un concetto così importante per la cultura albanese come la besa quando un corrispettivo in Europa, in Italia non esiste.

La besa è l’onore individuale di un uomo, da non confondere con lo nder (che è l’onore della famiglia, quello proveniente dal genos), la besa è la parola data, è il modo di comportarsi di un uomo da cui dipende la sua credibilità, la sua autorevolezza.

«Dalla besa dipende la mikpritja, l’accoglienza degli ospiti, chiunque si presenti in casa di un albanese chiedendo ospitalità è accolto come un figlio, anche meglio di un figlio».

Penso che da quando siamo in Albania siamo stati trattati davvero come figli, chiunque abbiamo incontrato si è mostrato molto disponibile al limite del grottesco. Lo faccio notare a Miklovan e lui sorride.

«Un tempo era tutto scritto nel Kanun, un insieme di leggi non scritte che andava al di là della religione, se eri un albanese dovevi seguirlo, non potevi scegliere, era così, fortunatamente ora è rimasta solo la parte positiva di quel codice di vita, come il rispetto verso la famiglia e la besa, il Kanun delle montagne dell’Albania non distingue le persone l’uno dall’altro. Davanti a Dio gli uomini sono tutti uguali, anima per anima».

Son passati ormai più di cinque secoli da quando il guerriero Lekë Dukagjini dal nord dei monti albanesi combatteva gli ottomani e proclamava il Kanuni eppure qualcosa di quel codice e di quegli uomini ancora oggi rimane. Rimane in questo spirito che nonostante gli ottomani, i bunker di Hoxha vivifica nel cuore dei vecchi e dei giovani. Vive in quel tatuaggio dell’aquila bifronte sul petto di Miklovan che ostenta come un trofeo, vive negli occhi della signora che ci ha ospitato ieri sera e nel voler a tutti i costi cederci il suo letto, vive nel cenno di saluto degli uomini seduti al bar di Gusmar che ci lasciamo alle spalle e forse vive in questi tornanti che ripercorriamo al contrario diretti nuovamente a Tepelene.

Sulla strada ci fermiamo a vedere una risorgenza carsica, un fiume in piena che passa proprio sotto le fondamenta di un ristorante-hotel pochi chilometri prima di Kelcyres, il Gryka, è quasi ora di pranzo e la gola di Michele P. chiede una birra. L’occasione è troppo ghiotta per non restare a pranzare in quello scenario da favola e a chiedere informazioni su grotte nelle vicinanze.

Dopo un discreto pollo ruspante con riso e qualche birretta ripartiamo verso il Dhembel sulla solita rruga impraticabile. Immediatamente ci imbattiamo in una vecchia risorgenza ormai fossile che degrada verso il suo fondo, perdendosi nelle sue profondità in un azzurro quasi accecante.

Pino ci racconta che la Petranik, così si chiama quella grotta, nel lontano 2005 è stata esplorata da Beppe Minciotti uno speleo sub veneto di grande esperienza che riempì di sagole anche un’altra grotta subacquea situata poco più avanti sulla strada che da Tepelene va a Kelcyre, Permet fino ad arrivare confine greco di Pera: la Uji i Zi (la vedremo soltanto da lontano qualche giorno più tardi da un distributore di benzina, che prestava il fianco al Vjosa).

La Grotta Petranik

Il percorso risalendo il Dhembel si fa sempre più tortuoso, di case nemmeno l’ombra fino a quando non incontriamo quello che a prima vista pare essere un pastore, anche se non c’è ombra di animali, che strappando un pezzo di carta da un sacchetto che conteneva del cibo condito con dell’olio, ci disegna una piccola mappa dicendo che poco più avanti alla fine della salita c’è una kishë (chiesa ortodossa) dedicata a San Cristoforo e che tra qualche giorno ci sarebbe stata la festa a lui dedicata.

Decidiamo che il protettore dei viaggiatori, il “gigante che porta sulle spalle Gesù bambino” se la merita una visita, così lasciamo la macchina ed entriamo in una piccola casupola con il tetto ricoperto di chiancarelle alla locorotondese.

Una volta dentro, difronte a noi troneggia la figura di San Cristoforo, vari ex voto (fiammiferi, cioccolata e delle noci) riempiono le nicchie e sui lati, appese, le icone di vari santi, ma un quadro attira la nostra attenzione. Una Madonna con bambino ci ricorda da dove veniamo, da dove siamo partiti: la madonna di Costantinopoli, così simile alla nostra Odegitria, a colei che indica la via.

Proseguiamo ancora verso l’alto, su questa rruga che collega il fondovalle a Laskaj Maleshove. Qui la mulatteria si perde tra una serie di doline interminabili su un altopiano che ci fa sperare in qualche profondissima grotta, ma non troviamo nulla, solo un paesaggio che ancora una volta ci lascia senza fiato e un ennesimo uomo che sull’ultimo tratto di strada tracciata del Dhembel riempie un sacco di un erba utile per la fabbricazione di una medicina per il mal di stomaco.

È anziano, è senza denti, indossa una camicia di flanella a quadri grigi sotto un sole che toglie il fiato e naturalmente non parla italiano e da come ci guarda quando gli chiediamo “sphella?” per un attimo ho dubitato che fosse addirittura albanese.

Per farci comprendere dobbiamo usare tuttala nostra immaginazione e una quantità di gesti che nemmeno Gioca Jouer aveva osato tanto.

Si chiama Vengel, raccoglie erbe e dice di essere un astronomo della polizia.

La sua qualifica è così assurda che quasi quasi ci credo. Vengel è un vecchietto molto simpatico che nel giro di qualche secondo da perfetti sconosciuti, passiamo a conoscenti, ad amici per la pelle. Ci racconta che vive a Permet e che sarebbe felicissimo se questa sera lo raggiungessimo a casa sua a condividere qualche bicchiere di raki.

Lo ringraziamo e proseguiamo la nostra ricerca matta e disperatissima di grotte. Prima di andare via però Vengel regala a Pino un sacchetto di un’erba molto profumata dai fiori giallastri da cui si ricava un infuso utile, secondo l’astronomo, alla prostata da noi ribattezzato subito prostamol.

«Appena arriviamo in albergo stasera me lo faccio subito».

Vengel ride e noi salutiamo anche il Dhembel con i suoi 2000 metri, con le sue strade non strade, con i suoi altipiani e le sue doline che ci avevano fatto ben spesare, con i suoi pastori ricchi di umanità e le sue grotte che questo massiccio non ci ha voluto svelare.

Raggiungiamo Permet, sono le otto di sera e ci serve un albergo e una doccia per toglierci la polvere del Dhembel di dosso.

Entriamo in un bar situato ad un primo piano di un palazzo che, nonostante gli anni, mantiene la sua eroica dignità e ordiniamo quattro birre cercando di trovare un posto dove dormire e qualcosa da magiare.

Il cameriere, l’ennesimo Giovanni, ci consiglia l’hotel al piano di sopra e il ristorante al piano di sotto. Mai stato tutto così semplice.

Cerco di contrattare con Giovanni, un ragazzotto simpatico e disponibile che gestisce anche l’hotel, un caffè per l’indomani. Qui niente caffè compreso nel costo della stanza. Ce ne facciamo una ragione.

Scegliamo il ristorante di Robert Hila, un ragazzotto sulla quarantina con capelli rasati che ci accoglie con un sorriso rassicurante.

Robert ci scambia per semplici turisti capitati li per caso, tant’è che ci porta delle brochure vecchie di qualche decennio che raccontano di un Albania che non esiste più. Ordiniamo pollo, agnello e insalata accompagnati da una porzione di patatine fritte all’abanese con erbe aromatiche.

In tv sul canale “Tv Clan” danno l’ennesimo episodio di “Ertugrul” una serie televisiva che paralizza l’Albania da oltre tre anni. Ogni sera gli uomini e le donne si posizionano davanti alla tv e guardano in turco con i sottotitoli in albanese le peripezie del padre fondatore degli Ottomani e della sua incessante lotta contro i Bizantini. Il mondo si blocca, e di quello che succede intorno non gliene frega niente, almeno fino alla pubblicità.

Un ragazzo che parla italiano e tifa Inter mi racconta che hanno avvelenato il padre di Ertugrul e adesso ci sarà il processo.

Anche Robert il cameriere/proprietario è incuriosito dalla mia curiosità e mi guarda con la stessa espressione con la quale mi guarda mia madre quando le chiedo un qualcosa durante il “Segreto”, quella soap “sfrangia flutti” che ha intossicato milioni di italiani.

Il tavolo chiede birra ma Robert non ci caca di striscio.

Decido di intervenire «È possibile avere una paio di birre?»

Robert mi guarda come se gli avessi insultato la famiglia.

Robert sorride ma ad alzarsi è uno dei tanti ragazzi seduti a quei tavoli di quel ristorante bar che stanno facendo il tifo per la giustizia ottomana.

«Se non mi porti un paio di birre ti dico chi ha avvelenato Suleyman»

Spoiler allert!

Il ragazzo che parla italiano mi implora di non svelare la storia passandomi le due birre, ma io gli rispondo che ormai è troppo tardi e che naturalmente l’assassino è il maggiordomo.

«Come in Signora in giallo!».

Finalmente finisce l’episodio, ma nemmeno oggi si è scoperto chi ha ammazzato chi, e il pubblico non sembra soddisfatto.

«È da un anno e mezzo che va avanti questo processo!»

Robert finalmente torna tra i vivi e gli chiediamo il conto ma prima ci offre il gliko arre

un dolce tipico di Permet, fatto con le noci non ancora mature, messe a bollire in modo da ammorbidire lo strato esterno. Successivamente, alle noci viene aggiunto uno sciroppo preparato con miele, acqua e fiori di geranio che danno al dolce una colorazione rossastra.

L’immancabile raki ci concilia il sonno.

La chiesetta di San Cristoforo

Permet è famosa per le sue rose disseminate per le strade del paesino che oggi conta sui dodicimila abitanti. Difronte alla finestra della stanza d’albergo un lustra scarpe è al lavoro ad un agolo della strada. A quanto pare alle 8 del mattino è immerso nel suo compito e nella fila che si è creata nella sua bottega fatta da un ombrellone da spiaggia e una cassetta della frutta nella quale conserva dei prodotti per lucidare le calzature dei clienti.

Dopo aver preso un caffè in un bar frequentatissimo e aver guadagnato un posto all’ombra, mi faccio un giro fumando una sigaretta e raggiungo quel che resta, dopo il periodo ateo comunista, della chiesetta ortodossa dedicata a San Nicola. Naturalmente è chiusa, come è chiuso il minareto. Mi chiedo se qui, in Albania dopo la caduta del comunismo abbia mai pregato qualcuno o se l’ultima preghiera sia stata proprio la fine del regime di Hoxha.

Raggiungo la piazza dedicata all’eroe rivoluzionario Abdyl Frasheri uno dei protagonisti del risorgimento albanese, il fondatore della lega di Prizren, la lega che chiedeva sostanzialmente l’autonomia del paese delle aquile dall’impero turco. Sulla mappa Prizren oggi è in Kossovo, ma un tempo era in territorio albanese e, da quel paese, alla fine dell’Ottocento si chiedeva l’indipendenza a Istanbul, sperando di essere notati da Berlino. Solo un secolo dopo furono presi in considerazione: la guerra dilaniò nuovamente i Balcani e a pagarne le conseguenze furono gli stessi kosovari che tra il 1996 e il 1999 dovettero fari i conti con un altro pazzo: il leader indiscusso del socialismo serbo: Slobodan Milosovic.

A circa 15 km dalla statua di Abdyl Frasheri, nel paesino di Petran, si trovano le terme di Benje, delle sorgenti termali situate sulle rive del fiume Langarice che ha scavato l’omonimo canyon. È li che siamo diretti. In quel canyon, una vecchia segnalazione di Perikli di qualche anno fa indicava diverse cavità ancora inesplorate.

Dopo aver provato molta invidia per una cinquantina di ragazzi che facevano il bagno in quella vasca naturale di acqua tiepida al leggero sentore di uova lesse, cominciamo a salire puntando verso le alture del Dangelli formate da una serie di alture intorno ai 1200 metri che il calcare le ha sepolto da un bel po’ tempo.

Dopo l’ennesima sequenza di tornanti e ponti di legno mai revisionati, arriviamo fino a una centrale idroelettrica dove la ripida strada finisce in un cubo di cemento armato che incanala l’acqua e la snatura. Di grotte nemmeno una traccia. Non resta che, dopo oltre tre ore di estenuanti buche e passaggi complicati utili per guadare un torrentello, decidiamo di fermarci dove il rigagnolo si ingrossa e dove la macchia mediterranea ci fa ombra per magiare qualcosa.

L’italianità è riconoscibile anche se sei dall’altra parte dell’Adriatico, l’italianità è qualcosa che porti dentro di te anche se pensi di essere cittadino del mondo, l’italianità è quel sentimento che ti porta, dopo aver mangiato del tonno in scatola con dei crackers e della pancetta salata utilizzando una roccia triassica come tagliere, a tirar fuori il fornelletto a gas e la moka e a farti un caffè con acqua di un burimi (sorgente) in piena natura dove ci sei tu e altri tre come te e una decina di girini che ormai si sono affezionati alla nostra presenza.

L’italianità è anche lo scazzo di non recuperare 4 bicchieri, ma di mettere tutto il caffè in una tazza metallica dove prima bevono i due che lo prendono amaro e poi gli altri due.

Tocca tornare indietro, rifare la strada al contrario, ancora una volta tornare sui propri passi, cercare meglio, leggere il paesaggio, seguire le pieghe, soppesare il calcare.

Sono giorni che non vediamo una grotta nonostante Pino e Michele M. continuino a ripetere che qui «C’è calcare buono», lo vediamo anche da noi, ma seduti in macchina non ci sappiamo più stare.

Ormai il sole all’orizzonte si nasconde dietro quello che ad occhio e croce con le cime innevate e le imponenti strapiombi verticali è il massiccio della Nemercka, un angolo di mondo custodito tra Tepelene e la Grecia.

È tardi e ancora una volta non abbiamo un posto dove passare la notte, due opzioni o ritornare a dormire da Giovanni a Permet, oppure cercare qualcosa lungo la Vjosa, la scelta si ferma davanti a un hotel con annesso ristorante e bar dall’emblematico nome “Nemercka”. Qui si fa musica dal vivo albanese, l’attività è gestita da un omone che a me ricorda un sindaco di un paesino della Valle d’Itria, un uomo sulla quarantina in visibile sovrappeso con pantaloni neri e maglietta nera, capelli corti e un sorriso vero come quello di Berlusconi. Al mio saluto in un inglese oxfordiano chiama immediatamente il figlio, un ragazzo biondino che non capisce una mazza di quello che dico.

Gli chiedo se vuole parlare in francese o in tedesco (incrocio le dita affinché non sia questa la sua scelta), mi dice di aspettare, decidiamo di sederci a un tavolino sotto un gazebo di ciliegi mentre la band si concede una pausa da un sound check senza mixer e impianto audio.

Al tavolo si presenta un nuovo cameriere al quale chiediamo una birra e un una camera.

È il fratello di quello di prima, parla inglese, sicuramente meglio di quell’altro e ci comunica che per la stanza bisogna palare con suo fratello maggiore, cioè quello di prima.

Siamo in un cul de sac mica da poco. In uno stallo alla messicana.

«E anche oggi non ci facciamo mancare nulla».

Sorseggio la birra e ci riprovo. Riusciamo a capire che siccome è sabato hanno tutte le camere occupate, ma sarebbero felici di ospitarci in casa loro. Chiedo immediatamente il costo di questa operazione e se è possibile cucinare, vogliamo mettere alla prova ancora una volta le qualità culinarie di Pino.

Ci accordiamo sul prezzo, severo ma giusto, e mentre gli altri finiscono la birra, mi avvio verso la casa distante dal ciliegeto solo qualche decina di metri.

Ad accogliermi sulla porta un piccolo bambino di nome Selim. Selim ha quasi dieci anni parla un ottimo inglese ed è il minore dei tre, gli stringo la mano e come tutte le volte che ho a che fare con un bambino lo tratto esattamente come tratterei un adulto. Alla pari. Gli stringo la mano, mi presento, lo ringrazio per la disponibilità e lui molto cordialmente mi fa vedere la casa spiegandomi che entro 15 minuti le nostre stanze sarebbero state pronte. Nel frattempo avremmo potuto cucinare con il nostro fornelletto a gas.

Selim mi lascia basito, io a alla sua età non riuscivo a dire nemmeno: Power Rangers lui invece ci intrattiene, ci racconta cose e ci da una mano nell’apparecchiare la tavola, mentre Pino prepara una pasta e ceci rossa con pancetta che quasi mi fa commuovere.

Il caffè sulle alture del Dangelli

Insegniamo a Selim a giocare a Scopa con le carte napoletane all’ombra della Nemercka che sembra sputare una luna piena che non ricordo di aver visto mai così grande, sembra quasi che si stia ribellando ai tanti secoli in cui è stata costretta ad essere solo una “semplice” mezzaluna.

Sveglia presto, colazione veloce, doppio caffè e si riparte per raggiungere Argirocastro una delle città più vecchie dell’Albania situata a quasi trecento metri sul livello del mare come segna l’orologio di Michele che, imperterrito, continua a guidare tra strade che diventano sempre più umane. La città argentata, la città museo, protetta dal Mali i Gjere e dal fiume Drinos, la città che partorì il dittatore comunista Henver Hoxha, la città che oggi cerca di dimenticare le sue origini e quel crack finanziario della fine degli anni Novanta che mise in ginocchio tutta l’Albania, la città che si sente greca con quel profumo turco racchiuso in un bazar moschea che vediamo solo da lontano.

Pino, con una cartina in mano, ci detta la strada da percorrere lentamente, soppesando dal finestrino il calcare, binocolo alla mano e un pacchetto di sigarette che chiede spesso quei cinque minuti di aria.

Direzione altopiano del Cajupit. Alla fine di una rruga asfaltata, alla fine di quasi quattro ore di macchina, alla fine dell’Albania, alla fine del mondo si apre difronte a noi un altopiano enorme. Un anfiteatro naturale che «Potrebbe ospitare i prossimi mondiali».

Una radura verde di diversi km quadrati, un silenzio surreale, sotto di noi pare esserci il nulla, attorno a noi solo montagne che sembrano quasi inghiottirci.

«Se non ci sono qui grotte è meglio che ce ne torniamo in Italia».

L’enorme altopiano chiama alla battaglia. Ma l’attenzione viene rapita da una insegna pubblicitaria ingiallita e un gazebo Bar Hotel Ristorante. Ci servono informazioni e quel posto è l’unico nel quale rifugiarci.

Ci sediamo.

Ordiniamo 3 caffè turchi e la cameriera che, scopriremo solo inseguito essere la figlia del proprietario, comincia a parlare in italiano portandoci una raki dolcissima di benvenuto.

Ci racconta che questo non è un bar, né un ristorante, né un hotel, è la casa dei suoi genitori. Nonostante l’insegna.

«Un domani, qui sarà tutto questo, un domani…qui ci saranno i turisti, un domani…».

Un domani forse l’Albania non sarà più la stessa Albania.

Con un tatto da elefanti chiediamo se ci sono grotte e lei ci fa parlare con suo padre facendoci da interprete.

«La grotta c’è ed è dietro a quella sorgente»

Ci offre i caffè e proseguiamo il nostro viaggio percorrendo il diametro di quell’altopiano che sembra la circonferenza del mondo. Sui bordi della mulattiera c’è una famiglia di raccoglitori.

Quella che dovrebbe essere la nonna è arrampicata su un albero che strappa le punte più giovani, ha un doppio sacco legato alla cintola, tira, spezza e mette nel sacco. Sotto l’albero, con i piedi a terra la figlia, madre di due bambini, due piccole stelle che seguono l’esempio della più anziana del gruppo.

Tirano, strappano, mettono nel sacco.

Raccolgono le cime di un arbusto che nessuno di noi ha mai visto che cura l’asma, la tosse e il mal di gola. Ipnotizzati dalla meccanicità dei gesti che sembrano quasi rispettare un rituale privato tra la natura e l’uomo, ci indicano i passi da intraprendere per raggiungere la voragine, al di là dell’altra casa abitata che adesso sembra non più una meta ma un ostacolo che toglie aria alla vista.

Salutiamo e andiamo via, consapevoli che siamo stati spettatori di uno spettacolo non replicabile da nessun altra parte del mondo.

Qui così vanno le cose e così devono andare.

Mentre proseguiamo nella direzione che c’è stata indicata, veniamo fermati da un pick-up bianco che ci viene incontro a velocità sostenuta. Una scena surreale e grottesca allo stesso tempo che spezza quell’idillio .

«Cazzo, sembrano narcotrafficanti Sudamericani, qua finisce che ci tocca trattare con Pablo Escobar»

Alla guida c’è un cowboy albanese con tanto di cappello a falde e baffoni, accanto un altro baffone che continua a ripetere «Italiani», mentre dal cassone arrivano urla incomprensibili da un altro cowboy e due albanesi con camicia di flanella, alla texana, che al posto degli stivali indossano dei mocassini d’altri tempi.

«Amico Italino»

Strette di mani in stile festa di paese e, senza fronzoli, chiediamo della grotta.

Dalla macchina esce un personaggio che avevamo sottovaluto. Un quarantanovenne di un metro e sessata con pantaloni mimetici, maglietta e scarpe slacciate.

Si chiama George è si autonomina guida del gruppo di italiani.

«Money, money…»

Concordiamo un prezzo davvero ridicolo e George si rivela uno dei personaggi più positivi che abbiamo incontrato finora.

Ha pochi denti in bocca, sicuramente due in oro che ostenta come un trofeo, come ostenta un dente di cinghiale che ha appeso al collo. Millanta di essere uno «sniper», un cecchino, che va a caccia di cinghiali e di stambecchi che spara da distanze improbabili, che per raggiungere ci vogliono anche due giorni, ma lui spara lo stesso.

George conosce questi posti, ne è affezionato li rispetta, è uno che quando cammina accarezza l’erba. George non è sposato ma ha un figlio che fa il camionista a Milano, ci racconta tutto, parla a gesti è surreale la sua mimica. Non dice una parola ma riusciamo a capire tutto e lui capisce tutto.

George ogni quarto d’ora di cammino si ferma e si accende una sigaretta offrendo tabacco a tutti, George non perde mai di vista Pino «Pino Lupo» lo aspetta, cammina lentamente, rallenta.

«John Silver ok?»

Ci fa morire dal ridere con i suoi tentativi goffi di essere agile, ma George non è mai stato agile, George è quella montagna stessa, ogni erba che incontriamo la stradica, l’annusa e ci spiega a cosa serve.

Il tempo minaccia male, le nuvole si stanno ingrossando, ma per il momento il cielo sembra aver pietà di noi, la strada per raggiungere la grotta sembra un treno della Sud Est ci vogliono sempre 15 minuti per arrivare, ma poi non si arriva mai. Si cammina su strapiombi vertiginosi che solleticano lo stomaco, George ne è consapevole e ogni tanto per ricordacelo lancia un masso giù per la scarpata

«Qui durante la seconda guerra mondiale i greci sparavano agli albanesi, qui si è combattuta una guerra di pazzia»

Guerra di pazzia, una sintesi perfetta per archiviare un pezzo di storia che qui ancora brucia.

Se l’alibi non regge, mira al cuore, uccidi tutto, cancella le tue origini e un mirëmëngjesi (buongiorno) può tranquillamente diventare un kalimera.

Finalmente siamo sul Vrime i Ex, una cavità sul versante nord, che – ci racconta George – è stata esplorata, una decina ma forse anche venti anni prima da un coppia francese, marito e moglie che si calarono nel pozzo uscendone tre ore più tardi.

Un pozzo di una trentina di metri arriva su un meandro che immette in una galleria che fa da apripista a un paio di salti che toccano il fondo che, secondo il racconto di quei francesi, risulta essere allagato.

Dopo aver espletato i riti speleologici (foto, punti gps, ecc.) torniamo indietro ad un ritmo più serrato, ora il cielo minaccia davvero male e se prima era stato clemente ora ci farà pagare il conto.

Comincia a piovigginare, George fuma sotto la pioggia, gioca con un grosso ramarro e ci racconta che lui i ramarri li mangia alla brace, ma da come ci sta giocando e dalla paura che ha ci crediamo poco.

Finalmente arriviamo nuovamente alla macchina e per ringraziare George oltre a pagarlo lo invitiamo nel finto bar a bere una birra.

Lui accetta e alle cinque e qualcosa del pomeriggio ci beviamo questa cinquina di birra calda che al passaggio tra lingua e gola mi riempie gli occhi di lacrime.

Naturalmente George da buon albanese vuole ricambiarci il favore e con la scusa di accompagnalo a casa sua ci invita a restare.

In una baracca con tetto in lamiera con annessa roulotte che condivide con i narcos di prima ci accoglie come se fosse la reggia del gran visir.

È straordinario il concetto che questo popolo ha della condivisione, riescono sempre a farti sentire uno di loro, sempre. Ci invitano a restare a mangiare qualcosa, sul fuoco c’è un agnello che va, sono seduti per terra e hanno tutti un pezzo di quell’animale tra le mani o tra i denti. Ne danno uno anche a noi.

L’odore di quel ruminate è davvero molto forte sembra quasi che sia stato macellato al mattino, forse è andata esattamente così. Sa di selvatico e al tempo stesso di formaggio, per i nostri stomaci è un po’ troppo.

Ci salutiamo tra abbracci e risate, George ci ringrazia, ma siamo noi a ringraziarlo per quell’angolo di paradiso che ci ha fatto incontrare.

Proseguiamo il nostro viaggio diretti verso il confine greco naturalmente l’asfalto qui è solo un miraggio, si susseguono mulattiere improbabili, pastori che riaccompagnano a casa capre e mucche magrissime portata al mattino al pascolo. Sorpassiamo in ordine Topove, Nderan e ci fermiamo a Nivan un paesino che sembra di essere arrivati sull’Aspromonte.

In mezzo al centro abitato che sogna la Nemercka c’è un albero enorme: un ippocastano al cui interno sgorga una fontanella che disseta i viandanti come noi.

Ci fermiamo al primo bar per chiedere informazioni e per socializzare con gli indigeni locali prendendo una biretta di alleggerimento.

Parlando con quello che secondo Pino è il sindaco, capiamo che qui non è area di grotte e lo lasciamo così finire in santa pace la sua partita a domino.

Risaliti in macchina passiamo per Sheper dove incontriamo una coppia, marito e moglie sulla settantina che parlano un italiano perfetto e con la scusa ci consigliano un paesino per andare a dormire: «Oltre il Liqeni Sheperit un modestissimo lago, proseguite oltre e arrivate a Polican».

Dopo varie peripezie stradali finalmente arriviamo al calar del sole alla meta, ad accoglierci una rotonda asfaltata di fresco e un ragazzo di nome Alexandros.

Alexandros mi racconta che ha ventitré anni, ma sembra più grande di me, lavora nel municipio del paesino e si occupa di turismo o delle poste (questo lato della sua vita non è chiaro nemmeno a lui), mentre gli altri si accomodano al bar a bere, io con Alexandros cerco un posto per dormire. Lo troviamo immediatamente, alla modica cifra di 50 euro, a Polican puoi dormire in uno chalet modello Dolomiti al confine con la Grecia.

Alexandros ci tiene a farmi notare due cose: la prima che lo chalet ha un piccolo mulino ad acqua che al momento non è in funzione, ma che d’estate è l’attrazione del paese.

Per non essere maleducato non gli faccio notare che quello non è un mulino ad acqua ma una bomboniera kitsch di un arricchito con la fissa per Antonio Banderas e per la Mulino Bianco. Non contento Alexandros mi regala anche un’altra chicca, aprendo la porta e trovando la combinazione giusta di tasti luce si attiva un acquario a muro che genera cascatelle d’acqua. Per la cronaca l’aquario contiene gusci di bivalvi di plastica.

Ma l’altra cosa che mi fa notare Alexandros è che lui non è albanese, nonostante si sia fatto pagare in lek, nonostante lui si a nato qui da genitori che a loro volto sono nati qui, lui è un greco che non ha nulla a che fare con gli abanesi, ignoranti, che non fanno nemmeno le strade e che non riusciranno mai a far decollare questo paese.

Evito di far notare all’improvvisata guida che si sente Ermes, un vero e proprio emissario ellade, che a Polican è vero che c’è l’asfalto, ma l’hanno fatto stamattina. Come evito di far notare che tutte la stronzate sulla storia che mi racconta della supremazia della razza greca su quella albanese siano con me una grossa perdita di tempo.

«Alexandros visto che sei greco trova due olive che stasera Pino vuole cucinare la puttanesca..»

L’altopiano del Cajupit

La morte culturale deve essere insopportabile per chi non riesce a vivere.

Andiamo via da Polignano albanese (ribattezzata immediatamente così) appena il sole decide che i tempi sono maturi.

Prima di lasciare per sempre Polican consegniamo le chiavi dello chalet al bar:

«Visto che siete greci, e quindi europei, si può avere un espresso?»

Mentre il barista ci spiega che a causa della bassa tensione la macchina del caffè non funziona e che per oggi, di conseguenza, solo caffè turco, in paese si sparge la notizia che c’è un gruppo di italiani che cercano grotte facendoci diventare un vero fenomeno da baraccone.

Mentre i compagni di viaggio attendono il caffè turco, un vecchietto ci racconta che quando era ragazzo e c’era la guerra, un giorno un gruppo di soldati italiani mentre giocava a pallone lo presero a calci in culo dicendogli «Vaffanculo».

Mostriamo tutto il dispiacere del mondo per quell’episodio e capiamo che oltre a vergognarci del presente tocca pure farlo per il passato.

Una volta in macchina e imboccata la strada per Argirocastro dobbiamo attendere che l’asfalto asciughi.

È la legge del contrappasso, ti sei lamentato per le strade che ti hanno dilaniato le vertebre per una decina di giorni e adesso aspetti venti minuti che ‘sto asfalto asciughi.

Finalmente scendiamo verso la costa, e quando si scende verso Saranda tra Polican e il mare c’è di mezzo il Mali i Gjere, c’è di mezzo J Syri i Kalter.

L’Occhio blu, una risorgenza carsica ai piedi del versante occidentale del massiccio del Mali i Gjere, nei pressi del comune di Delvine un vero e proprio fiume sotterraneo che risale con una forza e una portata spaventosa: circa 10 metri cubi di acqua al secondo, una quantità liquida tanto spaventosa da buttar fuori i due neretini, Raffaele Onorato e Luciano Provenzano, quando cercarono con il Gsm nel lontano 1992 di riempirla di sagole.

Ogni tentativo di superare la strettoia posta alla profondità di circa 15 metri – ci racconta Pino mentre osserviamo quella meraviglia della natura-  restava invano. Poi all’improvviso, quando alcuni pesci che risalivano dalla profondità del pozzo indicarono un angolo morto della corrente, Raffaele passò di forza il punto stretto ed entrò in un canyon sommerso che scendeva fino a 45 metri di profondità e continuava grandissimo verso il buio ignoto. La necessità di tenere molto alta la sicurezza e le scorte d’aria che si erano consumate nei lunghi e faticosi tentativi di forzare la potenza delle acque, arrestarono i ragazzi del Novantadue e quella esplorazione, ma a quei tempi il risultato raggiunto era di tutto rispetto. Dopo circa 20 anni lo Syri i Kalter sarà nuovamente percorso fino allo stesso punto da una squadra di fortissimi speleosubacquei polacchi ma la sua parte più profonda resta ancora oggi inesplorata.

C’è stato un momento nel quale l’Albania e l’Italia erano a un passo per firmare uno di quegli accordi che riletti oggi fanno tremare le ginocchia, ma nel lontano 2002 il primo ministro albanese Fatos Nano, accompagnato dal ministro dell’agricoltura raggiunse Bari con un volo privato per risolvere la crisi idrica che attanagliava la Puglia. Sotto il beneplacito dell’allora presidente della regione Raffaele Fitto e dei dirigenti dell’Acquedotto Pugliese, l’Occhio blu stava per diventare il serbatoio della nostra regione con la creazione di un acquedotto sottomarino.

Un mese prima il KKU (Consiglio nazionale delle acque albanesi), aveva dato il primo via libera alla realizzazione di un progetto di collegamento tra la sorgente ai piedi del Mali i Gjiere e una tranche della rete idrica pugliese. Il piano prevedeva un investimento di oltre 850 milioni di euro per una conduttura che sarebbe dovuta partire da Valona e sboccare a Galugnano (Lecce). Un totale di 212 chilometri di cui 127 sulla terraferma, (108 in Albania e 19 in Italia), e altri 85 sul fondale adriatico.

Fortunatamente tutto saltò, come oggi è saltata la leggenda di come l’Occhio blu un tempo era noto come la sorgente degli dei.

La leggenda racconta che tanto tempo fa ci fu un vento molto forte cosi forte che si mosse persino il fondo del mare e il fondo del mare partorì un serpente che, trasportato da una nuvola, arrivò sul monte Sopot. Questo serpente gigante e malvagio mangiava gli animali e rovinava i raccolti dei contadini di quel monte. Un giorno un anziano pastore con un asinello carico di materiale infiammabile si diresse verso il serpente e gli diede fuoco. L’ingordo serpente non resistette all’insolito pasto e mangiò l’asino in fiamme. L’ingordigia come si sa, porta alla distruzione, il serpente bruciò dal suo interno. Il rettile urlava e implorava l’aiuto del mare che l’aveva messo al mondo e del fratello Fiume, ma non ricevette risposta e si lasciò morire.

A questo punto la storia si complica ulteriormente sia il mare e sia il fiume partirono per aiutarlo ma non riuscirono a salvarlo. Il serpente nel frattempo continuava a sbattere la lunga coda sulla faccia della montagna lasciando così i “segni” che ancora oggi si vedono.
Da quel giorno la montagna ed il mare sono legati l’uno all’altro come padre e figlio. La leggenda narra appunto che fu il mare il motivo per il quale dalle viscere del monte sgorga con forza quell’acqua azzurra alla ricerca ancora oggi di salvare la vita al serpente.

Quello che resta da vedere oggi dello Syri i Kater, escludendo naturalmente la noncuranza e gli abusi edilizi, è una risorgenza di un blu accecante, di una bellezza disarmante, con una vegetazione che placida se ne sta e custodisce quella sorgente.

Qui tutto e blu anche le centinaia e centinaia di libellule che si alzano in volo schivando turisti e posandosi su fiori e ninfee che qui abbondano.

L’occhio blu è anche un ricordo ancora vivo nei racconti di Pino e Michele che oltre 25 anni fa erano qui a fare il tifo per Raffaele e Luciano affinché quelle profondità si dispiegassero sotto i loro occhi.

Avrei voluto chiedere che effetto fa rivedere questa meraviglia dopo tanti anni, ma i loro occhi mi lasciano desistere dall’impresa. Qui loro hanno lasciato un pezzo di cuore.

Dopo 18 km siamo a Saranda, la città dedicata ai Quaranta Santi che un tempo vivevano sulla collina dove sorge il monastero che sovrasta la città. Località marittima, oggi meta turistica low cost per le sue spiagge e i suoi stabilimenti che con 1,50 euro ti concedono ombrellone e lettino.

Percorrendo il lungo mare di quella che un tempo veniva chiamata Porto Edda Ciano in onore della figlia di Mussolini ci si accorge che le rimesse degli albanesi italiani finiscono tutte qui. Si investe in alberghi uno più vintage dell’altro, senza nessuna armonia con il paesaggio, sembra una Rimini bombardata, una Riccione degli anni Ottanta, con i suoi Gerry Calà e i suoi Umberto Smaila.

Forse l’Albania sta guardando troppo all’occidente dimenticandosi delle sue origini illiriche, orientali.

Dopo una sosta per un pranzo a base di scatolette e mandorle risaliamo la costa che da Saranda porta a Valona. L’obiettivo è il Llogarat ultima tappa per individuare ancora qualche buco.

Shen Vasil, Lukove corrono veloci dai nostri finestrini, poi arriviamo a Borsh. Qui c’è un bar costruito sopra una sorgente di acqua leggerissima esattamente come a Kelcyres. L’occasione è troppo ghiotta per non osservarla da vicino in compagnia di una birretta pomeridiana e di qualche ricordo anni Novanta di un Albania che non esiste più.

Lo spettacolo che possiamo osservare è qualcosa di estremante particolare. Un giardino maestoso con alberi giganteschi e un rumore assordante di acqua che incessante scorre.

Qui in questo paese l’acqua è ovunque e scorre libera, va dove cazzo le pare, senza che nessuno faccia qualcosa, senza che nessuno riesca o pensi di indirizzarla da qualche parte. È un mistero della fede.

«Vedete quegli alberi? Quando venimmo per la prima volta in Albania passammo per Tirana, c’erano pochissime macchine e tanta desolazione, per le strade c’erano tantissimi alberi tagliati, con i il tronco mozzato. Non capivamo perché, fino a quando Perikly non ci raccontò come stavano le cose. Con la caduta del comunismo la gente per la prima volta si è sentita libera e non sapendo come sfogare la troppa libertà ha deciso di tagliare gli alberi della città. Voi immaginate se tagliassero questo albero?»

Quello che indica Michele è un albero che avrà una circonferenza di almeno 8 metri, sembra controllare che il torrente prosegua diritto il suo corso perdendosi sugli spalti del monte e arrivando fino al mare, fino allo Ionio.

A guardia di questo mare poco più avanti a Himare, c’è una fortezza forse di origine veneziana: Porto Palermo.

La leggenda vuole sia stata costruita da Ali Pasha di Tepelene agli inizi del 1800 e fu chiamata così dai soldati italiani durante la prima guerra mondiale. Il castello oggi si presenta a triangolo equilatero e servì sempre seguendo la leggenda ad Ali Pasha, per nascondere il tesoro di cui parla Dumas nel Conte di Montecristo.

Si narra che finiti i lavori, il Leone di Giannina, fece uccidere tutti gli operai e i due architetti, affinché non rivelassero informazioni sulla planimetria della fortezza.

Con il passare del tempo la fortezza fu prima prigione sotto re Zog e sotto il fascismo e infine, con Enver Hoxha, campo di lavoro e zona militare, oggi è una meta turistica incastonata nella roccia, che domina il mare, il cielo e la terra.

Saliamo lungo i tornati che ci dividono dal Llogarat passando in rassegna i piccoli centri abitativi che sovrastano la costa: Vuno, Dhermi, Palase e ci fermiamo a Panorama, una steakhouse costruita da un muratore albanese che ha lavorato in Puglia. Ha costruito trulli e pareti anche a Martina Franca ad Altamura e Massafra. Ha messo da parte ogni mese dei soldi fino a costruire questo enorme ritrovo arredato con gusto e molto ospitale.

«Da quella piazzola si lanciano i russi con il parapendio, qui arriva anche il turismo positivo, di chi spende i soldi e ci lascia respirare».

Si lanciano come aquile, guardano dall’alto pastori, capre e baracche in lamiera, due mondi talmente scollegati e agli antipodi che è tremendamente difficile poterli pensare insieme, eppure qui riescono a convivere l’uno incurante dell’altro, nella totale indifferenza. Chissà se all’infinito queste due rette si incontreranno mai, chissà chi cederà il passo per primo, chissà se davvero questa sia la strada giusta.

Guadagniamo un punto di vantaggio per osservare il paesaggio, su una piazzola che troneggia la costa, diamo fuoco a una sigaretta per ordinare i pensieri. All’improvviso si ferma un roulotte sgangherata.

«Un saluto ai patrioti»

Franco, un salernitano di Ottati che lavora per la costruzione della TAP e che “getta pilastri” da oltre 20 anni, non crede ai suoi occhi nel vedere in un aprile scontato degli italiani che cercano grotte e lo fanno gratuitamente. Franco non si fa mille problemi, lui è un lavoratore esegue ordini, oggi è qui in Albania domani è in Grecia e dopo domani innalzerà nuovi pilastri per una funivia che collegherà il Llogarat alla costa.

«Qui si vive bene, è un bel posto, ma mi manca casa, sono accoglienti, si fanno i fatti loro, ti trattano come un fratello, ma non è lo stesso».

Inevitabilmente ci chiede della situazione politica in Italia, sono giorni difficili gli raccontiamo, ma a lui la risposta sembra quasi non interessarlo. Quando parla dell’Italia gli si illuminano gli occhi, ne parla come se fosse una persona.

«L’Italia, salutatemela.»

Non servono considerazioni caro Franco, quel tuo “patrioti” di prima mi aveva spiazzato, mi aveva creato un senso di malessere psicofisico dovuto al mio retaggio culturale che inconsapevolmente si ripropone in qualsiasi situazione che puzza di becero nazionalismo. Ora che andiamo via ho capito tutto, ho capito che quando sei lontano dalla tua terra natale ci si attacca a tutto quello che puoi per mantenerne vivo il ricordo, perché la nostalgia ti toglie il fiato, il respiro e le notti.

Siamo circondati da pini loricati, gli avevamo visti anche sull’Arneshta ma qui sono tantissimi e colorano di un verde smeraldo le cime del Llogarat. Il sole è ormai vicino al tramonto che si perde al di là del mare che ormai sono diversi chilometri che l’abbiamo perso di vista.

Il proprietario de Panorama prima di congedarci ci aveva messo in contatto con Giovanni un albanese che aveva vissuto anche lui in Italia per di versi anni e che ora aveva rilevato una guesthouse con tanto di ristorante. Siamo diretti là per passare l’ultima notte albanese.

Dopo un doccia conciliatrice a tavola ci prendiamo tutto il tempo che possiamo. Assaggiamo tutto quello che il menù albanese concede, con una sola richiesta:

«Giovanni porta da magiare molto lentamente in maniera slow facendoci gustare fino all’ultimo boccone questa meravigliosa terra».

Giovanni ci vizia con il suo buon italiano, ci spiega i piatti e come vengono preparati, ci racconta di tradizioni culinarie millenarie che ancora sopravvivono e che oggi sono racchiuse nei sapori che questa tavola albanese ci sta regalando per l’ultima volta.

La risorgenza J Syri i Kalter (Occhio blu)

La cena si conclude con il llokum accompagnato da una raki molto più simile alla nostra grappa. Il llokum non è un dolce come tutti gli altri è un dolce di quelli che rappresenta la storia di questo popolo che per sopravvivere ha dovuto mischiare le sue origini con quelle ottomane. Il suo gusto è dolce e gelatinoso, sembra una cotognata al sapore di miele e noci. Il llokum non si rifiuta mai, va mangiato per forza, noi nonostante la lauta mangiata onoriamo il padrone di casa con triplo giro di raki e con la consapevolezza che domani un traghetto ci riporterà a casa.

Quello sul Llogarat è il caffè più lungo che abbia mai bevuto, lo sorseggio con una cura maniacale, non un buon caffè, anche un po’ sotto la media, ma lo bevo lo stesso molto lentamente. Mi sono svegliato presto per godermi l’ultima alba qui in Albania. Prendete una montagna riempitela di pini loricati e del loro profumo ipnotico, piantate delle case e delle strutture ricettive più o meno accettabili, costruite una strada che, scollinando di brutto, collega Saranda a Valona e aspettate.

Aspettate i turisti, aspettate il loro esercito pronto per l’invasione low cost e sperate che facciano meno danni possibile.

Salutiamo Giovanni paghiamo i quattro caffè e in men che non si dica ci lanciamo a capofitto sulla strada che conduce a Valona. Ormai la montagna si addolcisce, ormai abbiamo il mare alla nostra sinistra bordato da lidi che pare siano stati bombardati più dal cattivo gusto che da un ragionamento turistico capace di attrarre sviluppo e risorse.

Orikum, Radhime ne sono una testimonianza agghiacciante, case alberghi e lidi con le serrande chiuse e mentre passi pensi chi abiterà tutto questo?

Qui la verità è che, come al di là dell’Adriatico, hanno pensato di fare le rivoluzioni costruendo case e lasciandole vuote. Qui le case vuote fanno rumore e tutti fanno finta di non sentire.

Poi arriva Valona, compare in maniera razionale con una rotonda che arrotonda il paesaggio urbano, lo antropizza, lo rende umano.

Suv che sfrecciano, autobus che non riescono a tenere la destra e una fiumana di auto parcheggiate in attesa di un qualcuno, di un qualcosa.

Quello che rimane dell’antica Aulona è solo un ricordo molto sbiadito, anche i turisti sembrano non farci più caso, ma il centro antico della città è qualcosa che mette i brividi. Qui le case sembrano vuote, ma sono piene, sembrano disabitate, diroccate, ma le antenne paraboliche non mentono. È strano pensare che proprio da qui, da questi quartieri partì quello che nemmeno gli storici riuscirono a etichettare e a capire. L’anarchia albanese, la definirono così, la rabbia albanese, quella che camminava sotto la luce del sole e che voleva la testa di Berisha.

Oggi tutto questo non esiste più, oggi Valona è un non luogo dove la gente passa veloce e va via, una città sepolta sotto fondamenta stanche. Perché qui si si decise di disarmare l’anarchia con elezioni libere e con la concessione di una nuova costituzione.

Dopo un caffè, un check in complicato e una perquisizione molto dettagliata finalmente saliamo sul traghetto.

Proprio da qui, da questo molo che abbiamo inforcato, partì la Katër i Radës la nave con 120 albanesi che cercavano una vita migliore, stremati dalle lotte interne che nella notte del venerdì santo del 1997 fu speronata dalla nostra Marina Militare. Morino un centinaio di passeggeri. Morirono sogni e speranze. Il cordone ombelicale che legava quegli ignari passeggeri si recise con bisturi italiano.

Ora sono sul ponte che fumo una sigaretta con Pino.

Guardiamo l’orizzonte e poi guardiamo Valona, cercando di allungare lo sguardo ai monti albanesi e a tutti quelli che abbiamo conosciuto.

«Che ne sarà di Durim? Che ne sarà del Mali Dejes? Che ne sarà di questa Albania?»

Pino mi sorride.

So che pensa le stesse cose. So che entrambi sappiamo la risposta.

Il vicino oriente sarà schiacciato dall’occidente e l’oriente si sposterà ancora più a est, fino a quando potremo vedere l’alba, fino a quando il sole tramonterà.

Il comandate ordina ai sottoposti di indossare i caschi, sembra dire: l’Europa ci guarda, e dispone di mollare le gomene e poi di tirare su le due ancore.

Miroparshim Sqiptar.

Sono le 2 e 35 minuti di un pomeriggio di un maggio che non ha nessun signore e moltissimi padroni.

Il team esplorativo