Traghetto, partenza, via
21/4/’17
Sono circa le 21:00 quando riusciamo ad imbarcarci da Bari sul traghetto per Durazzo.
Superato il panico iniziale, perché il dott. Verboschi aveva scordato la focaccia in auto, subito ci acclimatiamo con la nave. Una comitiva di arbëreshe calabresi inizia ad aprire le danze con musiche suonate da una chitarra e una fisarmonica, i passeggeri paiono apprezzare l’armonia, tanto da accompagnarli con battiti di mani e presunte percussioni sui tavoli; ovviamente noi non siamo da meno. Il buon Verboschi accenna dei passi di “danza”, Donatella se la ride, il biondo Giuseppe si impossessa di una fisarmonica. Giustamente il più piccolo della spedizione, non capisce perché costoro non conoscano la pizzica e quindi decide di accordarla lui, per la gioia dei più e per la perplessità dei legittimi proprietari dello strumento.

Durazzo – Vrahne: ma quando cappero si arriva?
22/4/17
Ci si sveglia all’alba e dopo un ottimo espresso al bar del traghetto, alla modica cifra di 2€ (offriva Pasquale), si intravede il Paese delle Aquile all’orizzonte. Una volta sbarcati, puntiamo dritti verso Tirana. Decidiamo di assaltare un supermercato per rimpinguare le scorte di cibo e giustamente becchiamo l’unico punto vendita Conad d’Albania per italiani, con prezzi quasi italiani. Comunque, una volta acquistati 100 litri di birra e una mela al giornoX10giorniXtutti (il motivo di quest’ultima compera, resta tutt’ora sconosciuto), andiamo a recuperare in aeroporto Claudio e Jelena che ci raggiungevano da Bologna, ma soprattutto Edmond, cioè il nostro interprete, nonché guida, nonché colui che ci salva sempre il culo in Albania.
Belli carichi, (nel vero senso della parola), si parte alla volta di Vrahne sulle Alpi Albanesi, profondo nord, ai confini con Kosovo e Montenegro.
Alle 14:00 decidiamo di fare sosta pranzo in un posticino sul ponte della diga di Kukës

Dopo aver degustato del non proprio ottimo riso con carne e verdure, iniziamo a percorrere per ore una serie infinita di tornanti sulla strada per Tropojë. Da lì deviamo per le Alpi e ci si apre un panorama mozzafiato, tra montagne verdi e corsi d’acqua azzurri. Da buoni inglesi ci accorgiamo che l’ora del thè è superata da un pezzo e cogliamo l’occasione per fermarci a prendere l’ennesimo caffè italiano: “che i poverini stanno guidando da ore!”.
Il posto che scegliamo, è quello che noi definiremmo una baita di montagna. Locale curato, che rimanda alla tradizione albanese, dagli interni agli animali impagliati, fino alla musica.

Rinvigoriti dalla caffeina, rimontiamo sulle Jeep, consapevoli che la meta è vicina.
Col cappero!
Una volta imboccata la strada per Vrahne, Edmond a.k.a Mondi, ci fa presente che questa, a breve, sarebbe diventata uno sterrato di circa 2 – 3 km. Ora, noi per sterrato intendiamo un manto di brecciolino, di terra, al massimo un tratturo con qualche pietra, invece no, questa “strada” é fatta di sassi quando va bene e di roccia affiorante nella restante parte dei casi. Dopo 2 ore di percorrenza e dopo aver guadato un torrente, con il buio e il voltastomaco, giungiamo a destinazione. Inutile dire, che la casa che ci ospita è l’ultima sul sentiero.

Shpella borë
23/4/’17
Di buona lena e carichi di entusiasmo ci alziamo e prepariamo. È il grande giorno, si va in grotta! Siamo ubicati a quota 1000 mt e da qui possiamo scorgere la catena montuosa e la montagna che ospita la “Shpella Shtares”, grotta da noi scoperta il penultimo giorno della spedizione dell’agosto 2016.

Dobbiamo arrivare fin lassù a quota 1500, per entrare in grotta e armare un traverso per superare i 300 mt di cavità esplorati l’anno prima. Il piano c’è: avanti andranno gli agili Claudio e Donatella, a seguire gli esperti Michele e Pasquale, a rimorchio tutti gli altri.
Lo sfigato Orlando sarebbe entrato per ultimo, con un altro peggior sfigato, a sua scelta, per fare il rilievo. Messi in spalla zaini e sacchi, carichi come muli, si inizia a salire. Affrontiamo il primo mini-dislivello in un bosco con un po’ di neve per terra, nulla di preoccupante. Più avanti ci si para il secondo dislivello, decisamente più tosto e con neve che arriva alle caviglie. Superati dei massi sporgenti neri, ci prepariamo ad affrontare l’ultimo dislivello, che altro non è, che una salitona ripida che ci condurrà in una lingua nella montagna, proprio quella della grotta. Qui si fa dura, la neve è più alta (supera le caviglie), più compatta e decisamente scivolosa. Il Presidente si immola e apre una strada nella neve con i suoi piedi, noi tutti a ruota camminiamo nelle sue tracce.
Si sente farfugliare qualcosa circa i “rampuoni”.

Giunti a destinazione, capiamo che il tempo non è dei migliori, nuvoloni grigi avvolgono le montagne e vento freddo soffia sulle nostre facce. Davanti a noi la lingua nella roccia è sommersa da neve. Alzando la testa, in alto scorgiamo il buco d’ingresso della “Shtares”. Capiamo sin da subito che il piano va cambiato. Iniziano a salire sulla coltre di neve Michele e il giovane Caliandro. Non è facile raggiungere l’ingresso. In qualche modo il biondo e giovane Giuseppe passa, superando un passaggio difficoltoso e arrivando in cima. Si fa lanciare una corda, per consentire agli altri di salire.
Inizia a cadere borë (neve) dal cielo, fa un freddo boia. Salgono nella lingua Donatella, Orlando e Michele il Presidente. Vedono subito un pozzo e una galleria alta. Si insinua un dubbio. Ma la “shpella” è quella dell’anno scorso? L’ingresso era costituito da una sola galleria ampia, né tantomeno si scorgevano pozzi. Noialtri in basso, restiamo un attimo interdetti per la domanda, ma rispondiamo che la grotta è proprio quella. Capiamo che il grande ingresso, ammirato in agosto, è ora tappato da metri di neve!
Orlando attrezza un traverso per accedere alla galleria alta, bypassando il pozzo. Lì su, si possono ammirare stalattiti di ghiaccio enormi e altrettanto enormi strati di ghiaccio in terra. Una voce si alza: « i rampuoni, sul ghiaccio ci vogliono i rampuoni! »

Nel frattempo il dott. Verboschi colleziona teli termici.
Uno per volta, dandoci il cambio, saliamo su, al “nuovo” ingresso. Ogni tanto vengono giù pezzi o stalattiti intere di ghiaccio. Il fondo del pozzo e la prosecuzione della galleria sono impraticabili. Sono entrambi gelati, in più bisogna prestare attenzione in alto, perché ogni minuto casca qualcosa dalla volta.
Decidiamo a malincuore di desistere, ma sappiamo tutti di aver preso la decisione giusta.
«D’altronde», dice una persona, «non siamo attrezzati per il ghiaccio, non abbiamo i rampuoni!».
Orlando e il congelato Claudio disarmano il traverso, pian piano gli altri iniziano a scendere.

Come al solito, superato il momento triste per la mancata esplorazione, la mettiamo sulla goliardia. La parte di discesa innevata della montagna, da buoni meridionali, la facciamo a cavalcioni sui sacchi speleo, usandoli a mo’ di slittino.
Sulla strada del ritorno, una voce femminile tiene a ribadire che: «Senza rampuoni sul ghiaccio, non si va da nessuna parte!»
È troppo! Sbotto: «Rampoooni, cazzo! Si dice rampoooni! Con la “O”! Chiusa e strascinata, tipica martinese! Un po’ di integrazione col Gruppo, ECCHECAZZ!» Jelena mi guarda un po’ interdetta, con quell’aria tipica, di chi è indeciso se ridere o sferrare un pugno, per fortuna l’esperta esploratrice di ghiacciai, opta per una terza soluzione: mandarmi a cagare, in sovietico stretto!
Rientriamo a casa, dove ci attende una stufa a legna accesa. È un toccasana, sia per gli abiti, sia per le nostre ossa. Siamo stati fuori al gelo complessivamente 6 ore.
Ci fa visita il padrone di casa, un simpatico ragazzo di 35 anni, dall’impronunciabile nome. Si ferma a chiacchierare con noi per un po’. Edmond ci traduce tutto. L’ “impronunciato” ci segnala un buco al passo tra Vrahne e Curraj. Ecco, abbiamo trovato il da fare per l’indomani! Ceniamo, scoliamo raki e andiamo a dormire.
È primavera anche qui
23/4/’17
Ci svegliamo e facciamo colazione con calma, prepariamo qualche zaino e un sacco con una corda e un imbrago. È una bella giornata soleggiata. Ci mettiamo in cammino in direzione opposta, rispetto alle montagne del giorno prima. Percorriamo un sentiero. È lo stesso che avevamo fatto l’anno precedente per recarci alla “Shtares”. Il paesaggio è meraviglioso, il sole favorisce la fruizione del panorama. La zona è battuta, oltre che dai pastori del luogo, anche da escursionisti. Si può apprezzare a metà percorso un corso d’acqua sul fronte opposto. Capiamo che è quello che abbiamo attraversato in fuoristrada al nostro arrivo. Ogni tanto ci imbattiamo in cartelli che segnalano dei sentieri, ma noi seguiamo quello per “Curraj”.
Giungiamo al passo che congiunge Vrane a Curraj. Ci dividiamo in squadre e cerchiamo il buco segnalatoci. Ovviamente non lo troviamo.
Ci abbandoniamo al prato verde, della dolce vetta che ci ospita. Qualcuno tira fuori un binocolo, qualcuno passeggia, qualcun altro scatta selfie. Sembra di essere al centro del mondo, su quel passo. Da un lato si può ammirare lo splendore delle vette di Curraj, dall’altro le montagne di Vrahne. Riusciamo addirittura a scorgere la lingua, che abbiamo scalato il giorno prima. Nelle pareti si vedono potenziali aperture un po’ ovunque. Ne individuiamo una, dalla quale sembra sgorgare acqua. Crediamo che sia quella che ci hanno segnalato gli amici faentini telefonicamente, prima di partire.

Pranziamo lì, con frutta essiccata, barrette e carne in scatola.
Dopo un’ora di sosta, decidiamo di scendere a valle. L’intenzione è quella di tornare sul versante battuto il giorno precedente, per andare a visionare l’apertura osservata poco fa. Ma prima telefoniamo. Ma come, vi starete chiedendo voi, questi nel pieno del giro in montagna decidono di chiamare casa? Niente affatto, la chiamata parte per un affannato Pino Palmisano, che nel frattempo sta battendo il Mali Dejes, in Albania settentrionale. È in avanscoperta dal 18 aprile per trovarci buchi su quell’altipiano carsico. Sarà lì, che 5 di noi si recheranno tra un giorno.
Scendiamo verso valle, Claudio si fissa che per cena vuole le ortiche. Pare che le abbia assaggiate qui l’anno prima e ora non riesca più a farne meno. Arriviamo a casa, tempo di posare le chiappe sotto la veranda, che già si è pronti per ripartire. Claudio scambia qualche frase con l’aiuto di Edmond con la padrona di casa, perché vuole le ortiche. La signora gli dice di non rompere, perché lei non le mangia, ma se proprio ci tiene, gli fa capire che se le può raccogliere da solo. Ce ne sono in abbondanza.
Risaliamo lungo il letto di un fiume a secco, che ci conduce sotto una montagna, ai piedi della quale si manifesta l’apertura nella roccia. Promette bene. Ci fiondiamo dentro, con la stessa foga di chi è convinto di aver trovato un – 1000, e ovviamente non ci troviamo nulla. Chiudeva immediatamente, era un semplice sgrottamento della roccia.

Col sorriso sulle labbra ritorniamo verso casa, anche perché Claudio inizia a dare segni di squilibro da astinenza da ortica. Alziamo il passo, poiché il languorino nello stomaco, inizia a farsi sentire e da lì a poco le ortiche le avremmo mangiate pure crude. Ne raccogliamo un bustone, bardandoci le mani. Il tossico Claudio inizia a prepararle con cura, per poi sfornarci una gustosa frittata. Nel frattempo, il buon impronunciabile padrone di casa, ci mostra un buco nella roccia proprio, alle spalle dell’abitazione. Si scorge all’interno una mini-cavità. Ma il pertugio è troppo stretto per passarvi. L’impronunciabile si offre di allargarlo per il prossimo anno, con dei non ben specificati metodi esplosivi. Facciamo spallucce e rientriamo in casa.
La cena è servita.
La Liberazione dei quattro
25/4/’17
Un’altra bella giornata primaverile ci accoglie al risveglio. Facciamo colazione, raccogliamo una quantità industriale di bagagli e partiamo. Oggi le strade della allegra brigata si separeranno. Claudio e Jelena faranno rientro a Bologna; Orlando e Donatella si imbarcheranno per Bari. Lo scrivente, il piccolo del gruppo, il presidente, il dottore e il fin qui taciturno Pasquale, invece continueranno l’avventura albanese per altri 5 giorni, raggiungendo Pino a Macukull, un villaggio ai piedi del monte Dejes.
La strada del ritorno, in direzione Tirana, ci risulta ancora più lunga rispetto all’andata. Ci fermiamo nuovamente a pranzare alla diga, ma questa volta cambiamo ponte. Risultato: ottimi piatti di carnazza, trangugiati alla velocità della luce.

Dopo una digestione lenta e chilometri di tornanti giungiamo a Tirana. Lì, salutiamo i 4 partenti per l’Italia e con un po’ di malinconia per aver lasciato i compagni di avventura, imbocchiamo la strada per Burrel. Superata la cittadina, proseguiamo per la nostra destinazione; manco a dirlo, dobbiamo superare un altro sterrato catastrofico. Arriviamo a all’arrivo col buio.
Ad attenderci sull’uscio di casa, un sorridente Pino con Hysny, il nuovo padrone di casa, che questa volta riusciamo a chiamare per nome.
Non ci danno neanche il tempo di portar giù i bagagli, che calorosamente ci invitano al tavolino esterno dell’abitazione, a bere caffè turco e raki, come se non ci fosse un domani. In un nulla svanisce la malinconia per gli amici lasciati a Tirana e da qui in poi salirà in cattedra uno scatenato Pasquale.
Ma questa è un’altra storia.