Era il 1889 quando due pionieri, i fratelli Ferrara, si addentrarono per la prima volta nella grotta di Castelcivita, sugli Alburni. Da quel momento, con il passare delle stagioni, quel monte divenne l’Eldorado della speleologia, la meta indiscussa di tanti che avevano fame di abissi. La cronaca di quegli anni ci racconta come finì la folle discesa di Giovanni e Francesco che, rimasti senza olio nelle loro lampade, furono tratti in salvo dopo 8 giorni di buio dai soccorritori. Ma non è tutto: Francesco, scrissero i giornali, morì sulla via di casa e Giovanni divenne pazzo, per aver percorso “la via delle acque senza ritenerne memoria”. Quanto di vero c’è nelle parole di Badino non è dato sapere, ma la memoria quando si parla di grotte fa spesso buon viso a cattivo gioco.
Un’ottantina di anni fa sui monti Alburni arrivarono i triestini della Commissione Grotte “E.Boegan” e i romani del Circolo Speleologico Romano che proseguirono l’esplorazione di Castelcivita e di Pertosa, producendo rilievi e descrizioni che finirono su quella che può essere considerata la summa della speleologia di quegli anni: “Le grotte d’Italia”.
Ma su quel Monte più passavano gli anni e più nuovi speleologi e nuovi gruppi si affacciavano allargando i confini esplorativi, arrivarono così altri romani e successivamente i pugliesi assieme ai campani che condivisero quello spazio di utopia concreta come fossero un unico gruppo. Correva l’anno 1987 e quasi per gioco, a confermare quello che già si faceva normalmente, si costituì l’Associazione Intergruppi Ricerche ed Esplorazioni Speleologiche (AIRES). La leggenda vuole che l’acronimo nacque inseguito allo sfottò riservato al più “navigato” degli speleologi che di ritorno dalla capitale argentina si catapultò su quei monti in cerca di grotte e vecchi amici. Da sempre fanno parte dell’AIRES: il Gruppo Speleologico CAI Napoli, il Gruppo Speleologico Dauno e, naturalmente, il Gruppo Speleologico Martinese.
Quegl’uomini un tempo così giovani ma allo stesso tempo così sprovveduti impararono a proprie spese che ogni discesa in grotta aveva bisogno di una preparazione adeguata. Di uno studio a tavolino condiviso, perché il mondo sotterraneo ha dignità in se e in quanto mondo, ha delle regole, tutte sue, non applicabili alla superficie. Un mondo fatto di roccia calcarea, fatto di acqua, di buio assolutamente estraneo agli essere umani, non ostile, ma diverso. Sottoterra si opera cercando di modificarsi fino ad essere in equilibrio con posti perfettamente estranei alla natura umana, si combatte con il freddo, con l’acqua, con il buio cercando di riuscire a capire finalmente il funzionamento del mondo. Il pensiero di Badino faceva scuola.
A distanza di anni quella storia condivisa merita di essere raccontata, non un punto e a capo, ma un modo per fare i conti con la storia e con il tempo che passa inesorabile e che ha reso utili chi per la prima volta ha illuminato il buio, chi ha antropizzato almeno negli aggettivi le cavità custodite in quella catena montuosa. Fuori dagli schemi, appoggiati su meandri fatti di storie, di amicizia e di una passione, anche questa condivisa, per il mondo sotterraneo, un gruppo di amici ha deciso di rendere partecipe il passato per farlo diventare presente, per renderlo ancora attuale, per ridare dignità al lavoro svolto quando ancora ci si faceva sicura fidandosi dell’altro. Si salderà così un debito di riconoscenza verso questo territorio invitando vecchi e nuovi amici che in qualche modo non si sono ancora arresi e continuano a indagare il buio.
“Alburni, un monte condiviso” sarà un fine settimana informale, diverso, sulla scia dello spirito che fin dall’inizio ha caratterizzato le attività svolte da tutti coloro che hanno vissuto gli Alburni, da tutti coloro che hanno dato e preso secondo le proprie possibilità e necessità, esplorando, illuminando, risalendo nuovi rami, traversando pozzi, allargando fessure e strisciando in cunicoli fangosi.